A 9 anni la lasciarono davanti alla porta dei nonni perché ‘portava sfortuna’: oggi torna e li zittisce

A 9 anni la lasciarono davanti alla porta dei nonni perché ‘portava sfortuna’: oggi torna e li zittisce

Ventun anni fa, i miei genitori mi lasciarono davanti alla porta dei nonni dicendo che portavo “sfortuna”. Oggi sono un’imprenditrice milionaria — e quando sono tornati a chiedermi aiuto, quello che ho fatto li ha lasciati senza parole…

Mi chiamo Chiara Rinaldi e l’ultima volta che vidi i miei genitori da vicino avevo nove anni.

Ricordo ancora quel pomeriggio come se fosse inciso nella pelle. Il cielo era di un grigio pesante, di quelli che ti schiacciano il petto e fanno sembrare tutto più freddo. Io ero seduta sul sedile posteriore, con uno zainetto strappato stretto al petto e un vecchio orsetto di peluche a cui mancava un occhio. Era l’unica cosa che mi faceva sentire “a casa”, anche se casa, in quel momento, non sapevo più cosa fosse.

L’auto si fermò davanti alla villetta dei nonni, in un paesino non lontano da Bologna. La ghiaia scricchiolò sotto le ruote. Mia madre si voltò appena, con uno sguardo piatto, come se stesse parlando del tempo.

— Vai — disse. — Starai qui per un po’.

Io aprii la bocca per chiedere “perché”, ma lei non mi guardò nemmeno. Mio padre rimase con le mani sul volante, rigido, come se fosse già altrove.

Scese un silenzio brutto, tagliente. Io scesi dall’auto lentamente, con le gambe che tremavano. Sentii lo sportello chiudersi con un colpo secco. Poi il motore. E prima ancora che riuscissi a capire davvero cosa stesse succedendo, la macchina partì e sparì lungo la strada.

Rimasi immobile sul vialetto, con il vento che mi infilava il freddo nelle maniche. Feci due passi fino alla porta e bussai. Una, due, tre volte. Mi si stringeva la gola.

Aprì mio nonno. Aveva le spalle un po’ curve, gli occhi stanchi ma gentili. Per un attimo sembrò persino felice di vedermi, poi il suo viso cambiò.

— Chiara? Ma… che ci fai qui? E i tuoi genitori?

Io abbassai lo sguardo e la voce mi uscì come un soffio.

— Hanno detto… che resto qui.

Lui guardò oltre di me, verso la strada vuota. Fece un respiro lungo, uno di quelli pieni di cose non dette. Poi sussurrò:

— Io… io non posso mettermi contro di loro, tesoro.

E lentamente richiuse la porta.

Sì. La richiuse.

Io rimasi lì, nove anni, sola, con l’orsetto in mano e il mondo che all’improvviso sembrava troppo grande. Mi tremavano le dita. Non piansi subito. All’inizio restai solo ferma, come se aspettassi che la porta si riaprisse, che qualcuno dicesse: “Scusa, era uno scherzo, vieni dentro.”

Ma nessuno venne.

Finché una voce mi chiamò da dietro.

— Chiara!

Mi voltai e vidi la signora Elena Ferri, la vicina di casa di una volta. Era stata maestra alle elementari, una di quelle donne che profumano di biscotti e libri vecchi, e che parlano con un tono che ti fa sentire meno sola. Correvà verso di me con un plaid sulle braccia.

— Ma che succede? Ma sei gelata! Vieni, vieni subito con me.

Non mi chiese nulla in quel momento. Non mi fece domande davanti a quella porta chiusa. Mi avvolse nella coperta come si fa con i bambini quando hanno paura e mi portò a casa sua.

La sua cucina sapeva di cannella e tè caldo. C’erano fotografie di classe alle pareti e pile di romanzi sul tavolo. Per la prima volta in quella giornata, sentii il corpo allentarsi, come se finalmente qualcuno mi avesse messo una mano sulla spalla dicendo: “Ci sono.”

I giorni diventarono settimane. Nessuno venne a prendermi. Nessuno telefonò. Nessuno bussò.

La signora Ferri parlò con i servizi sociali, fece le pratiche, compilò moduli su moduli. Io non capivo bene cosa stesse facendo, ma ricordo una frase che mi disse una sera, mentre mi pettinava i capelli davanti allo specchio:

— Tu non sei sbagliata, Chiara. Sei stata lasciata dalle persone sbagliate.

Quella frase mi entrò dentro come una luce piccola ma vera.

A scuola ero la bambina silenziosa. Quella che prendeva sempre voti alti, ma non aveva nessuno che applaudisse quando riceveva un diploma o un attestato. Mi sedevo in fondo, parlavo poco, sorridevo per educazione.

E ogni compleanno, ogni Natale, io scrivevo ai miei genitori.

Lettere lunghe, piene di parole semplici: “Mi mancate”, “Spero stiate bene”, “Vorrei vedervi”. Le decoravo anche, con disegnini ai margini, come facevo da piccola. Le mettevo in busta e le consegnavo.

Non ricevetti mai risposta.

Un pomeriggio, quando avevo tredici anni, la signora Ferri arrivò in camera mia con una scatola di cartone. La posò sul letto senza dire nulla. Poi la aprì.

Dentro c’erano tutte le mie lettere.

Tutte.

Ritornate indietro.

Su ogni busta c’era un timbro rosso: “MITTENTE SCONOSCIUTO / RESTITUITO AL MITTENTE”.

Mi ricordo che fissai quel rosso come se bruciasse. Non urlai. Non feci scenate. Sentii solo qualcosa spezzarsi in modo silenzioso.

Quello fu il giorno in cui smisi di scrivere.

Ma il mondo aveva un’altra crudeltà pronta.

Quando compii quindici anni, scoprii che mia nonna — prima che le cose peggiorassero — mi aveva aperto un piccolo libretto di risparmio quando ero nata. Un gesto semplice, da nonni: “per il futuro”, per le emergenze, per gli studi.

Due settimane dopo avermi lasciata, i miei genitori avevano svuotato tutto.

Tutto. Fino all’ultimo euro.

Anche l’unica cosa che avrebbe dovuto proteggermi era stata portata via.

Quella notte rimasi seduta sul letto, stringendo il mio orsetto con un occhio solo. Guardai il soffitto e feci una promessa senza parole:

Non avrei più rincorso l’amore di chi non mi voleva.
Avrei costruito una vita così solida che nessuno avrebbe potuto distruggerla.

Da quel momento, iniziai a disegnarmi il futuro da sola.

A sedici anni trovai il primo lavoro: pulivo tavoli in una piccola trattoria dopo scuola. All’inizio ero impacciata, rovesciavo bicchieri, dimenticavo ordinazioni. Però lavoravo più degli altri, sempre.

Il proprietario, il signor Carlo, una sera mi guardò mentre chiudevo il locale e mi disse:

— Ma perché ti ammazzi così, ragazza? Hai tutta la vita davanti.

Io feci un mezzo sorriso.

— Perché nessuno lo farà al posto mio.

A diciotto anni avevo messo da parte abbastanza per iscrivermi all’università. Scelsi Economia, in un ateneo non “di lusso”, niente di scintillante. Ma era mio. Ogni esame superato era un mattone.

Tra una lezione e l’altra imparai a creare siti internet e a sistemare piccole cose digitali per negozietti della zona: il fioraio, la merceria, il bar. Mi pagavano poco, ma io imparavo molto.

Così mi venne un’idea: creare una piattaforma semplice e utile per ragazzi in affido e per giovani che, come me, si erano trovati senza una rete. Un posto dove trovare borse di studio, alloggi temporanei, orientamento, consigli pratici su documenti e finanze.

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