Accusa shock al supermercato: un agente afferra una bimba di 8 anni, poi arriva suo padre e tutto cambia

Accusa shock al supermercato: un agente afferra una bimba di 8 anni, poi arriva suo padre e tutto cambia

Un agente di polizia accusò una bambina di 8 anni, italiana di origine africana, di aver rubato al supermercato — cinque minuti dopo arrivò suo padre, e l’uomo impallidì…

«Ehi! Rimetti subito quel dolcetto! So benissimo cosa stai cercando di fare.»

La voce tagliente fece sobbalzare Amina Conti, otto anni, treccine ordinate e occhi vivaci, ferma nella corsia dei dolci di un supermercato in una tranquilla zona residenziale alle porte di Bologna. Amina rimase immobile, stringendo in una mano una piccola tavoletta di cioccolato e, nell’altra, alcune banconote stropicciate e monete in euro.

Davanti a lei si stagliava l’agente Sergio De Luca, un uomo alto e robusto sulla quarantina avanzata. La sua faccia era dura, il tono sgarbato.
«Non fare la santa, piccola. Ti ho visto. L’hai messo via di nascosto.»

Amina sbatté le palpebre in fretta, la voce tremante:
«Non stavo rubando… volevo pagare.»

Alcuni clienti si voltarono. Poi abbassarono lo sguardo e ripresero a camminare. Nessuno voleva problemi. Dalla corsia accanto arrivò di corsa Elena Bianchi, la babysitter, spaventata.
«Agente, per favore… è con me. Le ho dato io dei soldi per prendere un dolcetto. Non è nemmeno arrivata alle casse!»

De Luca strinse gli occhi.
«Risparmiami le scuse. Bambini come lei iniziano presto. Meglio fermarla adesso, prima che finisca nei guai veri.»

Il labbro di Amina iniziò a tremare quando l’agente le afferrò il polso.
«Andiamo. In caserma chiariremo.»

Elena impallidì.
«Ma non può portarla via! Suo padre—»

«Non mi importa chi sia suo padre!» sbottò De Luca. «Se ruba, sta infrangendo la legge.»

Amina sentì il viso diventare caldo, come se tutte le luci del supermercato le puntassero addosso. Il posto sembrava enorme, troppo rumoroso, troppo luminoso. La gente guardava, ma nessuno diceva nulla, mentre l’agente la trascinava verso l’uscita.

Elena, con le mani che le tremavano, tirò fuori il telefono.
«Chiamo subito il signor Conti.»

De Luca fece un mezzo sorriso, pieno di arroganza.
«Sì, chiama pure. Vediamo se il tuo capo riesce a “salvarla”.»

Fuori, la presa dell’agente sul polso di Amina si fece più forte. Le lacrime scesero silenziose sulle guance. De Luca non notò il telefono che vibrava nella mano di Elena, né l’auto scura che correva verso il supermercato.

Dentro, tra gli scaffali, si alzarono sussurri:
«Povera bambina…» mormorò qualcuno. «Non ha fatto niente…»

Ma De Luca ignorò tutto. Gonfio d’orgoglio, convinto di “dare una lezione”, non aveva idea di chi stesse davvero toccando.

Cinque minuti dopo, le porte automatiche si aprirono. Entrò Marco Conti, un uomo alto, in un completo blu impeccabile. Lo sguardo era freddo, concentrato. In città lo conoscevano: dirigente di un grande gruppo locale, un imprenditore rispettato. Ma in quel momento non era un dirigente. Era un padre furioso.

La sua voce rimbombò nel supermercato:
«Che cosa sta succedendo qui?»

De Luca si girò, ancora con Amina trattenuta per il braccio.
«Questa bambina è stata sorpresa a rubare.»

Lo sguardo di Marco si indurì.
«Quella bambina è mia figlia.»

Per un attimo, nel negozio calò un silenzio pesante. Come se l’aria fosse cambiata.

Marco attraversò il pavimento con passi lunghi e decisi. Le scarpe facevano eco sulle piastrelle. Senza alzare la voce, si mise davanti ad Amina e la portò delicatamente dietro di sé, come uno scudo.
«Mi sta dicendo che ha afferrato mia figlia di otto anni e l’ha accusata di furto… senza prove?»

De Luca si raddrizzò, cercando di recuperare autorità.
«L’ho vista prendere una tavoletta e nasconderla.»

Marco si chinò all’altezza di Amina. La voce si fece più dolce.
«Amore, raccontami. Che è successo?»

Amina tirò su col naso, gli occhi lucidi.
«Volevo pagare, papà… avevo i soldi qui.» Aprì la mano e mostrò le banconote spiegazzate e le monete.

Elena annuì subito, agitata:
«Non ha messo niente in tasca. Ho visto tutto.»

Marco si rialzò lentamente. Ora il suo volto era calmo, ma quel tipo di calma che fa paura.
«Agente, lei ha umiliato una bambina. Non ha verificato. Non ha chiesto. Ha solo deciso di crederle colpevole.»

De Luca incrociò le braccia.
«Signore, non devo spiegarle niente. Stavo facendo il mio lavoro.»

Il tono di Marco diventò gelido.
«Il suo lavoro? O il suo pregiudizio?»

Vicino alle casse si era formato un piccolo gruppo. Qualcuno aveva già tirato fuori il telefono e stava registrando. La tensione si tagliava con il coltello.

La mascella di De Luca si irrigidì.
«Stia attento a come parla, signore.»

Marco prese il proprio telefono e iniziò a registrare anche lui.
«No, stia attento lei. Voglio che resti tutto documentato. Lei ha preso mia figlia, otto anni, in pubblico, senza un motivo reale. Questo non è controllo. È abuso di potere.»

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