Eccola, di nuovo, la parola invisibile: scadenza.
Mi appoggiai al tavolo, guardai Rocco che dormiva. Il suo petto si alzava e si abbassava con una calma che io non avevo mai avuto.
“Con la mia età,” dissi piano, “so cosa conta. E cosa no.”
Lei sospirò. “E se ti succede qualcosa?”
Non era cattiveria. Era quel pragmatismo moderno che Matteo aveva indossato come una maglia.
Mi venne da sorridere, ma non fu un sorriso gentile.
“Se mi succede qualcosa,” risposi, “spero che qualcuno abbia almeno la decenza di non lasciarmi in una gabbia fredda.”
Ci fu silenzio.
Poi la voce di mia figlia cambiò, si fece più piccola. “Mamma…”
“Va bene,” la interruppi, più dolce. “Sto bene. E lui… lui è qui.”
“Come si chiama?”
“Rocco.”
Lo ripeté piano. “Rocco.”
Per un attimo, sembrò presente.
“Mandami un video,” disse. “Voglio vederlo quando cammina.”
“Cammina piano,” risposi. “Come me.”
E quella frase, semplice, fece qualcosa dall’altra parte del telefono. Non so cosa. Ma la sentii respirare.
La prima neve arrivò presto.
Una sera, la finestra era un foglio opaco e i lampioni sembravano galleggiare dentro una bolla di ghiaccio. Rocco era inquieto. Si alzava, girava, si fermava, come se cercasse qualcosa che non poteva trovare.
“Che c’è?” gli chiesi.
Lui mi guardò e, per la prima volta, ci vidi dentro una cosa che mi gelò: non riconoscimento, non pace.
Un allarme.
Si mosse verso la porta, poi tornò indietro. Il respiro diventò corto, spezzato.
Mi si strinse lo stomaco. Non era una tosse come quella della prima notte. Era diverso. Era come se l’aria avesse smesso di essere un diritto.
Mi inginocchiai accanto a lui—le ginocchia urlarono, ma non mi importava—e gli accarezzai il collo, parlando a voce bassa come si parla a un bambino spaventato.
“Ci sono,” ripetevo. “Ci sono.”
Il suo corpo tremava.
Mi alzai di scatto e presi il telefono. Le dita, all’improvviso, mi sembrarono di legno.
Chiamai il veterinario. La segreteria notturna. Le indicazioni. La voce che mi diceva di muovermi.
Guardai Rocco. Lui provò ad alzarsi e fallì. Le zampe posteriori scivolarono sul pavimento. Un suono sottile uscì dalla sua gola, non un guaito: una resa trattenuta.
E lì, in mezzo al salotto, capii la parte del patto che non avevo voluto guardare.
Il “come” non è solo dolcezza.
Il “come” è anche scegliere di non aspettare troppo.
Misi il cappotto sopra il pigiama, infilai le scarpe senza calze. Presi una coperta e la stesi sul pavimento, cercando di costruire in fretta un posto sicuro.
“Rocco, ascoltami,” dissi, e mi stupii della mia voce: ferma, come quella di quando si taglia una corda per salvare una barca. “Adesso andiamo. Non facciamo gli eroi.”
Lui mi guardò. Non so se capì le parole. Ma capì il tono. Quello che dice: non ti lascio qui.
Mi chinai per prenderlo. Era pesante, più di quanto pensassi. Il mio corpo protestò in ogni punto.
E proprio mentre stavo per cedere, sentii bussare alla porta.
Tre colpi. Decisi. Inaspettati.
Mi immobilizzai.
Chi bussa a quell’ora, con la neve che cade e la città che sembra morta?
Rocco fece un respiro corto, e i suoi occhi velati si spostarono verso la porta come se lo sapesse già.
Io deglutii, con una mano sulla coperta e l’altra sul telefono.
Poi andai ad aprire.






