I miei cugini stavano ancora ridendo quando ho aperto la busta stropicciata al funerale di mio nonno.
Mentre a loro andavano i quarantasei milioni di euro del patrimonio, la sua collezione di yacht d’epoca e una piccola isola privata al largo della Sardegna, a me toccava un solo biglietto aereo per Saint-Tropez.
Mio cugino Riccardo è addirittura scivolato dalla sedia dal ridere, tenendosi la pancia come se avesse appena sentito la barzelletta più divertente del mondo.
Ma trentasei ore dopo, in piedi all’aeroporto di Saint-Tropez, un uomo in abito perfetto mi avrebbe sussurrato sette parole che avrebbero cambiato tutto quello che credevo di sapere su mio nonno… e sul motivo per cui mi aveva tenuto a distanza per tutta la vita.
Il funerale era stato uno spettacolo, esattamente come mio nonno Giuliano Conti l’avrebbe voluto.
Auto nere lucide erano in fila lungo il viale privato della sua villa sul lago di Como, come un corteo silenzioso. Tutti quelli che contavano tra Milano e Roma erano venuti a rendere omaggio a Giuliano Conti, il magnate dell’immobiliare che aveva costruito mezzo skyline di lusso di Milano e una buona fetta dei nuovi complessi di Roma nord.
Riccardo, mio cugino, stava all’ingresso a salutare gli ospiti come se avesse già ereditato il trono. Indossava un abito su misura che probabilmente costava più del mio stipendio mensile da insegnante. I capelli biondi tirati all’indietro, lucidi di gel, sembravano pronti a resistere a una tempesta.
«Ingegnere, grazie di essere venuto», diceva con tono studiato a un noto imprenditore. «Nonno ne sarebbe stato onorato.»
Sua sorella, Chiara, era poco distante, in un vestito nero firmato che valeva più della mia macchina, intenta a trasmettere il lutto in diretta sul telefono ai suoi follower.
«È tutto così difficile da accettare», diceva alla fotocamera, una lacrima perfetta che scendeva lungo la guancia truccata.
Appena chiusa la diretta, ha controllato il numero di “mi piace” e ha sorriso soddisfatta.
E poi c’ero io, Luca, appoggiato vicino al guardaroba in un completo comprato in saldo tre anni fa. Ero l’insegnante di chimica che quella sera avrebbe dovuto correggere verifiche, perché lunedì i miei ragazzi avevano un compito.
Ero il nipote che aveva ricevuto esattamente sei telefonate dal nonno in ventinove anni di vita, quello di cui ci si ricordava solo all’ultimo, quello che aveva saputo della sua morte tramite un messaggio di gruppo.
Mia madre, Anna, mi trovò nascosto vicino all’ingresso della cucina.
Era una dei tre figli di nonno, quella che aveva commesso il peccato mortale: sposare per amore invece che per convenienza.
«Come stai, amore?» mi chiese, aggiustandomi la cravatta con le stesse mani delicate che mi avevano preparato il pranzo per anni.
«Sto bene, mamma. Solo… vorrei che fosse già finita.»
Mio padre, Marco, comparve accanto a lei con due tazze di caffè prese in cucina, perché sapeva che né io né lei avevamo lo stomaco per lo spumante che stavano servendo.
Le sue mani da falegname erano pulite, ma vedevo ancora, sotto le unghie, le tracce del mordente che usava per il mobile su cui stava lavorando.
«Stanno per leggere il testamento», disse piano. «Se vuoi, ce ne andiamo subito dopo.»
Non sapevo ancora che la lettura del testamento sarebbe stato l’inizio, non la fine.
Lo studio dove ci radunarono profumava di pelle e vecchi sigari, esattamente come durante tutte le cene di famiglia imbarazzanti a cui ero stato «obbligato» negli anni.
L’avvocato di famiglia, il signor De Santis, sedeva dietro la scrivania di legno massiccio con l’aria di chi fa questo lavoro da una vita. La sua assistente aveva già disposto diversi spessi fascicoli di cartone, ognuno con un nome scritto a mano da nonno, con la sua calligrafia precisa.
Riccardo si sedette sulla poltrona di pelle più vicina alla scrivania, già al telefono con il suo consulente finanziario.
«Sì, prepariamoci a una bella revisione del portafoglio», disse a voce abbastanza alta perché tutti sentissero. «Parliamo di cifre a nove zeri, minimo.»
Chiara era appoggiata sul divano antico, ritoccandosi il rossetto mentre la sua assistente filmava tutto «per documentazione», come aveva spiegato poco prima.
«È un pezzo importante della storia della nostra famiglia», aveva detto, senza guardare nessuno.
Mia zia Paola, madre di Riccardo, sedeva dritta sulla sedia, la collana di perle che rifletteva la luce del lampadario di cristallo. Aveva sposato lo zio Stefano quarant’anni prima ed era riuscita, giorno dopo giorno, a comportarsi come se fosse nata Conti e non ci fosse entrata per matrimonio.
Lui, in piedi vicino alla finestra, controllava le quotazioni di borsa sul telefono, come se il mercato non potesse sopravvivere cinque minuti senza di lui.
E poi c’eravamo noi tre, la «nostra» piccola famiglia, appoggiati vicino alla porta come se fossimo pronti a scappare.
Mamma teneva la mano di papà, e vidi come lui le accarezzava il dorso con il pollice: lo faceva sempre quando lei era nervosa.
Il signor De Santis si schiarì la voce.
«Possiamo cominciare?»
Fu allora che Riccardo mi guardò con un sorriso storto.
«Ehi, Luca, speriamo che il nonno non si sia dimenticato di te. Magari ti ha lasciato uno dei suoi vecchi libri di chimica.»
Rise della sua stessa battuta, mentre Chiara ridacchiava dietro la mano perfettamente curata.
Avrei voluto dirgli che nonno non aveva mai posseduto un libro di chimica in vita sua e probabilmente non si ricordava nemmeno cosa insegnassi, ma tenni la bocca chiusa.
In casa Conti avevo imparato presto che il silenzio era più sicuro dello scontro.
L’avvocato aprì la prima busta, il nome di Riccardo che brillava in oro.
Vidi mio cugino sporgersi in avanti come un lupo che sente odore di preda.
«Al mio nipote, Riccardo Conti, che ha dimostrato l’ambizione e la determinazione necessarie per portare avanti l’eredità della famiglia nel mondo degli affari, lascio i miei beni immobili a Milano: il complesso di grattacieli in zona Porta Nuova, i palazzi di pregio in centro e altri immobili commerciali, per un valore stimato complessivo di ventisette milioni di euro.»
Riccardo alzò il pugno come se avesse segnato un gol in finale di campionato.
«Sapevo che mi avrebbe riconosciuto per quello che valgo», esclamò.
«Inoltre», continuò l’avvocato, «gli lascio la mia collezione di auto d’epoca, comprese le sportive italiane degli anni Sessanta e Settanta e altri veicoli custoditi nel garage della proprietà sul lago.»
«Le sportive!» gridò Riccardo. «Solo quelle valgono una fortuna!»
Zia Paola gli lanciò uno sguardo finto severo, ma sorrideva anche lei.
Il signor De Santis passò alla busta successiva.
«A mia nipote, Chiara Conti, che ha dato un tocco moderno al nostro cognome con la sua influenza nel mondo dei social, lascio le mie proprietà in Costa Smeralda: la villa principale vista mare, valutata circa quattordici milioni di euro; la casa sulla spiaggia nella riviera ligure, valutata sette milioni; e la mia isola privata, situata al largo della Sardegna.»
Chiara emise un gridolino talmente acuto che pensai si rompesse il lampadario.
«Oddio, l’isola! Avete capito cosa significa? Posso organizzare ritiri esclusivi, eventi privati, cose solo su invito. La mia vita cambierà completamente.»
Stava già digitando sul telefono, probabilmente il post perfetto per annunciare tutto ai suoi follower.
«Inoltre», proseguì l’avvocato, «le lascio la mia flotta di yacht, compresa la barca principale e le imbarcazioni d’appoggio.»
«Quattro yacht», sussurrò Chiara, quasi senza fiato. «Non ci credo. È oltre ogni aspettativa.»
Lo zio Stefano le appoggiò una mano sulla spalla, orgoglioso.
«Tuo nonno sapeva che li avresti saputi sfruttare bene», disse.
Mia madre si irrigidì accanto a me. Mio padre rimase immobile, la mascella serrata.
«A mia figlia, Anna», lesse l’avvocato, e mamma si raddrizzò appena sulla sedia.
«Lascio la somma di centoventimila euro e la mia collezione di libri in prima edizione, con la speranza che possa trovare tra quelle pagine una saggezza che io non sono mai riuscito a trasmetterle.»
Centoventimila euro.
Sembrano tanti, finché li paragoni alle decine di milioni appena distribuiti in quella stanza.
I libri probabilmente avevano un valore, ma il messaggio era chiaro: aveva scelto la sua strada, e questa era la conseguenza.
«Grazie, papà», mormorò mamma, con più dignità di quanta lui meritasse.
«E infine», disse il signor De Santis, tirando fuori una busta piccola e stropicciata che sembrava recuperata dal cestino, «a mio nipote, Luca.»
La stanza si fece improvvisamente silenziosa.
Persino Chiara smise di scrivere sul telefono.
«Al mio nipote, Luca Rinaldi», lesse l’avvocato, «lascio… questo.»
Mi porse la busta. Era davvero sgualcita, come se qualcuno l’avesse appallottolata e poi cercato di raddrizzarla. Il mio nome era scritto con la grafia di nonno, ma meno ordinata del solito, quasi frettolosa.
La aprii con le dita che mi tremavano.
Dentro c’era un solo biglietto aereo. Prima classe, da Roma Fiumicino a Marsiglia, con coincidenza per Saint-Tropez. La partenza era per il giorno dopo, alle otto del mattino.
C’era anche un bigliettino strappato, scritto a mano: «Prima classe. Non perdere il volo.»
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