«Questa è in Perù», spiegò Vittorio. «Una clinica che curava gratuitamente le persone delle comunità andine. La Fondazione l’ha finanziata per intero.»
Un’altra foto: nonno che inaugura una piccola scuola con le pareti colorate.
«Questa è in Laos. Una delle tante scuole costruite negli ultimi vent’anni.»
«Quante ne avete costruite?» riuscii solo a chiedere.
«Ad oggi: duecentoquaranta scuole in vari paesi in via di sviluppo», rispose. «E poi cinquantadue ospedali o reparti pediatrici, circa centosessanta progetti per l’acqua potabile, programmi sanitari, borse di studio.»
Mi guardò negli occhi.
«La Fondazione ha garantito cure a più di duecentomila bambini. Suo nonno sapeva esattamente il numero.»
Mi sentii barcollare.
Tutta la mia vita avevo conosciuto un uomo duro, freddo, chiuso nei suoi conti e nelle sue decisioni. Qui, sulle pareti, ce n’era un altro.
Vittorio mi accompagnò in uno studio con una grande finestra sul mare.
Niente eccessi: una scrivania, scaffali pieni di faldoni, alcune foto.
Sul tavolo c’era un quaderno di pelle scura.
«Questo», disse piano, «lo ha scritto lui. Lo chiamava il suo “secondo libro mastro”. Non conti, ma pensieri.»
Lo aprii.
La calligrafia era quella che avevo visto mille volte sulle buste dei regali di Natale: precisa, pulita.
«Riccardo ha chiuso un affare oggi», lessi ad alta voce. «Per portarlo a termine ha fatto crollare tre piccole imprese di famiglia. Mi sono sentito orgoglioso per sei minuti, poi malato per sei ore. Questo ho creato.»
Voltai pagina.
«Chiara ha speso oggi il corrispettivo di un anno di stipendio di un insegnante per un abito. Sorrideva felice. Io ho firmato ieri un bonifico che permetterà a un villaggio intero di avere acqua pulita. Per la prima volta ho sentito che i miei soldi servono a qualcosa.»
Un’altra pagina.
«Luca ha fatto doposcuola gratis per tre ore dopo il suo orario. Il dirigente scolastico ha detto che non possono pagarlo. Non gli importa. Usa i suoi risparmi per comprare materiali per il laboratorio. Ha le mani di Marco e il cuore di Anna. Forse questo vale più di tutte le mie torri di vetro.»
Mi si strinse la gola.
«Mi osservava?» sussurrai.
Vittorio annuì.
«Ha ingaggiato uno studio che lo aiutava a capire come vivevano i suoi nipoti. Non per controllare, ma per vedere chi sarebbero diventati senza il suo intervento diretto.»
Si sedette di fronte a me.
«Guardava Riccardo nei locali, Chiara sugli yacht, e scuoteva la testa. Guardava lei in classe, con i suoi studenti, e diceva: “Forse non ho rovinato tutto”.»
«Ma perché non dire niente a nessuno? Perché questa recita?» chiesi, sentendo una rabbia confusa crescere accanto alla sorpresa.
Vittorio prese di nuovo il tablet.
Scorsi alcune immagini: Riccardo che lanciava fiches al tavolo di un casinò, ridendo con un bicchiere in mano; Chiara su una barca, che versava bottiglie di vino in mare per fare un video “spettacolare”.
«Diceva che la ricchezza mostra il carattere», spiegò. «E che non gli piaceva ciò che vedeva.»
Mi mostrò poi altre immagini, stavolta di me.
Io in aula, con un ragazzo seduto dopo l’orario, la faccia stanca ma attenta. Io che trascinavo scatoloni di materiale nel laboratorio. Io ad una fiera di scienze, che applaudivo i miei studenti.
«Ogni relazione che ricevevo su di lei», disse Vittorio, «la leggeva personalmente. E le confesso una cosa: sorrideva. Un sorriso vero, come nelle foto sulle pareti.»
Mi passò un altro quaderno, più sottile.
«Questo l’ha scritto negli ultimi anni. Ha scelto di non lasciarle “soldi” nel senso classico, ma qualcos’altro.»
Lo aprii.
Una pagina iniziava così:
«I beni in Italia saranno divorati in una generazione. Case vendute, auto cambiate, soldi spesi. La Fondazione, se messa nelle mani giuste, potrà continuare quando il mio nome sarà dimenticato. Mio nipote Luca non ha mai chiesto nulla. Per questo è l’unico a cui posso lasciare tutto.»
Sentii le gambe quasi cedere. Mi sedetti lentamente.
«Vuole dirmi che…»
«Che è l’erede di quello che c’è qui», completò Vittorio senza girarci intorno. «Non delle proprietà di lusso, non degli yacht. Di qualcosa di molto più grande e, mi permetta, molto più pesante.»
Restammo in silenzio per un po’, il rumore del mare filtrava dalla finestra socchiusa.
«C’è una condizione», riprese poi Vittorio. «In realtà, più di una.»
«Ovvero?»
«La prima è la segretezza. Se la sua famiglia in Italia dovesse venire a sapere dell’esistenza della Fondazione, è molto probabile che cercherebbe di impugnare testamenti, fare causa, creare problemi. Giuridicamente abbiamo le spalle coperte, ma suo nonno temeva non tanto di perdere soldi, quanto di vedere distrutto il lavoro fatto nei paesi dove aiutiamo.»
Fece una piccola pausa.
«La seconda condizione è che lei deve scegliere davvero. Può dire di no. Può tornare alla sua vita, continuare a insegnare e dimenticare tutto questo. Noi continueremo per qualche anno ancora, poi chiuderemo, come previsto nel caso lei rifiutasse.»
«E se dico di sì?»
«Se dice di sì», rispose, «diventa il presidente della Fondazione Romano. Non si tratta solo di firmare documenti. Vuol dire decidere dove vanno i soldi, quali progetti sostenere, quali vite cambiare. È un compito bello e terribile.»
Mi venne in mente un particolare.
«Ma io insegno», dissi. «Ho i miei studenti, la mia classe.»
Vittorio sorrise per la prima volta con calore.
«Lo so. E lo sapeva anche lui. Legga qui.»
Mi indicò un’altra pagina del quaderno.
«Se Luca accetterà, vorrà continuare a insegnare. Lasciateglielo fare. Un insegnante che diventa filantropo cambierà il mondo. Un filantropo che resta insegnante lo salverà.»
Mi si inumidirono gli occhi.
Quella sera, al tramonto, mi ritrovai sulla terrazza della villa.
Il cielo sopra il Mediterraneo si tingeva di arancione e rosa, le barche sembravano giocattoli, il vento portava odore di sale.
Stringevo tra le mani una cartellina con documenti che parlavano di conti in banca, statuti, progetti, bilanci. Non erano solo numeri. Erano scuole, ospedali, pozzi, borse di studio.
Il telefono vibrò in tasca.
Messaggio di Riccardo:
«Allora, come va la vacanza? Non ti abituare troppo. Qui stiamo già decidendo chi prende quali bottiglie dalla cantina del nonno. Peccato tu non abbia niente da reclamare 😉»
Quasi risi.
Stavano litigando per bottiglie di vino, per case da arredare, per barche da mostrare. E io stavo lì, a un passo da qualcosa che avrebbe toccato migliaia di vite che loro non avrebbero mai incontrato.
Vittorio mi raggiunse sulla terrazza con due bicchieri di vino.
«Suo nonno amava guardare il tramonto da qui», disse. «Diceva che in questo punto capiva quanto era piccola la sua vita di “Giuliano Conti” e quanto era grande la possibilità di Alessio Romano.»
«Perché mi ha tenuto a distanza?» chiesi. «Perché farmi sentire sempre quello di troppo?»
Vittorio si prese un momento.
«Un giorno mi disse così», rispose, cercando le parole. «“Se lo avvicino troppo, lo rovino. Se lo lascio in pace, forse cresce diritto, come il figlio di un falegname e una maestra di musica. Gli farà male, ma lo renderà forte.”»
Guardai il mare.
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