Al funerale del nonno miliardario tutti ricevettero milioni, io solo un biglietto spiegazzato per Saint-Tropez

«Quindi mi ha ignorato per proteggermi.»

«Ha fatto quello che sapeva fare», disse Vittorio. «Male, spesso. Ma qui ha cercato di rimediare.»

Mi voltai verso di lui.

«Accetto», dissi. «Ma alle mie condizioni. Io torno a insegnare. Rimango in Italia. Vengo qui quando posso: estate, vacanze, qualche settimana ogni tanto. Lavoreremo insieme, ma non diventerò l’ennesimo uomo che vive solo per i numeri.»

Vittorio annuì, quasi sollevato.

«È esattamente quello che sperava lei dicesse», rispose. «Ci ha lasciato persino un piano per conciliare le due cose.»


I due giorni successivi furono un vortice di informazioni.

Vidi i dossier dei progetti:
– scuole per bambine che, in certe zone dell’Asia, erano le prime della famiglia a imparare a leggere;
– reparti pediatrici in Africa dove venivano operate gratuitamente malformazioni che altrove condannavano alla vita nascosti in casa;
– sistemi di depurazione dell’acqua in villaggi dell’America Latina dove, da quando erano in funzione, nessun bambino era più morto di diarrea.

Ogni fascicolo aveva note a margine scritte da nonno.
Piccoli commenti, domande, richieste di controllo.

«Non voglio palazzi con il mio nome», aveva scritto in un punto. «Voglio bambini che crescono senza sapere chi li ha aiutati. È meglio così.»

Il secondo pomeriggio, Vittorio mi mostrò un ultimo documento.

«Questo riguarda la data in cui tutto è iniziato», disse.

Lessi.

«L’anno in cui Anna ha sposato Marco è stato l’anno in cui ho capito di aver sbagliato tutto. Lei ha scelto l’amore quando io le offrivo il potere. Io ho scelto il potere quando avevo avuto la possibilità di amare. Ma per me era tardi. Per lei no. Quello stesso anno ho aperto il primo conto della Fondazione Romano.»

Mi mancavano le parole.


Il viaggio di ritorno in Italia ebbe un sapore completamente diverso.
Non ero più il nipote umiliato da un biglietto aereo, ma non ero nemmeno il “nuovo ricco” che parte per ricoprire d’oro la propria vita.

Mi sentivo… pieno. Spaventato, sì. Ma pieno.

La domenica sera ci fu una cena di famiglia.
Stessa villa, stessi lampadari, stesso tavolo lungo.

Riccardo non ci mise molto.

«Allora, professore», disse con finto tono amichevole, «stai già rimpiangendo di non aver ricevuto qualche palazzo anche tu? Com’è andata a Saint-Tropez? Hai almeno preso un gelato sul lungomare?»

Chiara rise, ovviamente con il telefono in mano.

«Dai, racconta. Il nonno ti ha lasciato un albergo, una pensioncina, una cabina in spiaggia?»

Li guardai e, per la prima volta, non provai né invidia né vergogna.

«È stato… istruttivo», dissi solo. «Diciamo che mi ha fatto vedere alcune cose in prospettiva.»

«Che filosofico», sbuffò Riccardo. «Io avrei preferito vedere un bel conto in banca.»

Mia madre mi osservava in silenzio, con un sorriso appena accennato.
Mio padre, seduto a fianco, mi diede una pacca sulla spalla. Non sapevano i dettagli, ma avevano capito che dentro di me qualcosa si era messo finalmente a posto.


Otto mesi dopo, la mia scuola sembrava un posto diverso.

Un «misterioso donatore» aveva finanziato un programma di doposcuola per le materie scientifiche.
Il laboratorio di chimica, che da anni arrancava con vetrini scheggiati e strumenti vecchi, dopo le vacanze era stato rinnovato: nuovi banchi, reagenti in quantità, dispositivi di sicurezza moderni.

Nessuno, ovviamente, sapeva che il donatore ero io, o meglio, la Fondazione sotto un altro nome.

Gli studenti che non potevano permettersi corsi privati venivano seguiti gratuitamente nel pomeriggio.
Tutti quelli che volevano sostenere l’esame di maturità scegliendo l’indirizzo scientifico avevano i materiali pagati. Alcuni ragazzi particolarmente meritevoli ricevettero borse di studio per l’università, consegnate come «premi di un’associazione» senza un volto.

Fuori dall’Italia, la Fondazione non rallentò.

In un piccolo villaggio in Ghana, un bambino operato al cuore nel nostro ospedale iniziò a correre e giocare come gli altri.
In un paesino del Cile, da quando avevamo installato gli impianti per l’acqua potabile, non era più morto nessun bambino per infezioni intestinali.
In una valle del Laos, una ragazza che aveva imparato a leggere nella scuola costruita anni prima aveva appena ricevuto una lettera di ammissione all’università.

Ogni volta che Vittorio mi mandava i report, li leggevo la sera, dopo aver corretto i compiti.
A volte, quando ero stanco, pensavo: «Basterebbe mollare la scuola, trasferirmi lì e fare solo questo».
Ma poi il giorno dopo uno dei miei studenti mi faceva una domanda che illuminava tutta la classe, e capivo che avevo bisogno di entrambi i mondi per non perdermi.


Riccardo e Chiara, nel frattempo, seguivano la loro strada.

Lui aveva già perso alcuni milioni in investimenti sbagliati, troppo sicuro di sé per chiedere consiglio a qualcuno che non fosse il proprio riflesso nello specchio.
Lei organizzava weekend esclusivi sull’isola, eventi “imperdibili” con ingressi a cifre che io non avrei mai speso nemmeno per una vacanza intera.

Ogni tanto comparivano in qualche rivista, sorridenti, perfetti, patinati.

Non si chiedevano mai come facessi ad essere così tranquillo con quello che, nella loro versione dei fatti, «non avevo ricevuto».
Nella loro testa ero rimasto il cugino povero, quello che si accontenta.

La verità era che io avevo semplicemente smesso di misurare la vita in metri quadri e cavalli fiscali.


Nel cassetto della cattedra, a scuola, tenevo la busta stropicciata con il biglietto per Saint-Tropez.
Ogni tanto la prendevo in mano tra un’ora e l’altra.

Guardavo il mio nome, scritto male, in fretta, dal nonno.

Mi ricordavo la sensazione di umiliazione nello studio al lago, le risate dei miei cugini, la voce calma di mio padre.
E poi pensavo a quel cortile polveroso dall’altra parte del mondo dove, grazie a un bonifico che avevo firmato qualche settimana prima, stavano montando i banchi di una nuova classe.

Nell’ultimo quaderno di nonno c’era una frase che tornavo a rileggere spesso.

«I miei figli e nipoti in Italia hanno avuto la parte visibile della mia fortuna. Case, conti, cose che si toccano. A Luca lascio la parte invisibile. Loro avranno successo. Lui avrà un’eredità. Il successo si consuma. L’eredità continua a camminare quando noi non ci siamo più.»

Pensavo a Riccardo che litigava con l’ennesimo architetto per rifare un attico solo perché il grigio del pavimento «non rendeva bene in foto».
Pensavo a Chiara che programmava il prossimo viaggio per creare contenuti «più forti».

E poi pensavo a una bambina che, in un villaggio dall’altra parte del mondo, apriva un libro per la prima volta e sillabava le parole ad alta voce, in una lingua che non capivo ma che, in qualche modo, sentivo anche mia.


Non c’era nessuna medaglia, nessuna foto ufficiale, nessuna targa col mio nome.

C’era solo la consapevolezza che, ogni anno, una parte di quei quattrocentosessanta milioni lavorava in silenzio per persone che non mi avrebbero mai conosciuto.
E che io, tra una lezione sugli elettroni e una sulla tavola periodica, avevo la responsabilità di far sì che continuasse.

I miei cugini avevano ottenuto tutto ciò che si poteva mostrare.
Io avevo ricevuto qualcosa che non si poteva spiegare facilmente a tavola con un bicchiere di vino in mano.

Avevo ricevuto la possibilità di contare davvero per qualcuno che non avrebbe mai saputo il mio nome.

E, alla fine, capii che era l’unica eredità che mi interessava davvero.

Scroll to Top