Al funerale di mio nonno mi hanno riso in faccia: loro milioni, io solo una busta misteriosa

«Io non ne sapevo nulla.»

«Era esattamente ciò che voleva. Ha chiesto che lei venisse informata solo al compimento dei ventisei anni.»

Lo guardai, confusa.

«Perché?»

Alexandre si appoggiò allo schienale.

«Secondo lui, doveva prima conoscere la vita normale. Studiare, lavorare, pagare l’affitto, capire il valore del denaro e delle persone. Solo dopo avrebbe potuto gestire in modo responsabile quello che le stava lasciando.»

Aprì un altro documento e iniziò a leggere numeri e nomi di società.

«Il trust ha oggi il controllo di diversi beni importanti. Un grande resort con casinò sul mare qui nel Principato, che genera circa quaranta milioni di euro l’anno.
Un complesso alberghiero e di intrattenimento a Las Vegas, con un fatturato annuo di circa centinaquarantacinque milioni di dollari.
Immobili commerciali a Londra, Tokyo e Sydney. E una serie di investimenti in aziende internazionali.»

Sentivo le parole, ma era come se passassero attraverso una nebbia.

«Quindi… tutto questo… è collegato a me?»

Alexandre annuì.

«Sì. Lei è l’unica beneficiaria. Suo nonno è stato molto chiaro anche su un altro punto.»

Sfogliò ancora.

«Ha stabilito che lei ricevesse per anni solo un’erogazione annuale “modesta”, sufficiente per vivere bene ma non abbastanza da attirare attenzioni. Il denaro arrivava sul suo conto come “integrazione al reddito”.»

Mi gelai.

«I soldi extra che ho sempre avuto sul conto…»

«Venivano dal trust. Il suo stipendio da maestra le permetteva di vivere dignitosamente. Il resto veniva da qui, in modo discreto.»

Ripensai a tutte le volte in cui i colleghi si lamentavano dell’affitto, delle bollette, dei debiti. Io non avevo grandi lussi, ma non ero mai stata veramente in difficoltà.

E nonno, ogni volta che accennavo all’ansia per il futuro, sorrideva e diceva:

«Tu preoccupati di imparare, Chiara. Il resto è già sistemato.»

Mi tremava la voce.

«Alexandre… quanto vale, esattamente, questo trust?»

Lui consultò un’ultima pagina.

«Alla data di oggi, il valore netto del patrimonio è di circa 1,2 miliardi di dollari.»

Mi appoggiai allo schienale, aggrappandomi ai braccioli per non scivolare.

Miliardi. Non milioni. Miliardi.

Alexandre continuò, con calma:

«Per dirla in modo semplice: lei è miliardaria, signorina Conti. E lo è già da un po’. Solo che non lo sapeva.»

Rimanemmo a quell’enorme scrivania per il resto del pomeriggio.
Mi mostrò contratti, atti notarili, bilanci, documenti fiscali. Tutto era perfettamente in regola, studiato per proteggerla.

«Suo nonno era molto lucido» disse Alexandre a un certo punto. «Sapeva che, se la sua famiglia avesse scoperto l’esistenza di tutto questo troppo presto, lei sarebbe stata trattata in modo diverso. E non in meglio.»

Vidi, come un lampo, le risate allo studio del notaio.
La frase di mamma. La battuta di Luca. Lo sguardo di compatimento di Francesca.

«Ha voluto che lei vedesse come si comportavano con la Chiara “normale”» continuò Alexandre. «Così che potesse capire chi teneva davvero a lei, e chi avrebbe tenuto solo al suo denaro.»

Abbassai lo sguardo.

«E adesso?»

Lui chiuse la cartellina e la spinse verso di me.

«Adesso decide lei, signorina Conti. Come usare ciò che ha sempre posseduto. Chi tenere vicino. E chi, forse, è meglio tenere a distanza.»

Quella sera, Alexandre organizzò una visita al resort che il trust possedeva sul mare, poco lontano dal casinò.

Il direttore, un uomo elegante di mezza età, mi guidò tra hall di lusso, ristoranti pieni, sale da gioco dove le fiches si muovevano a ritmo incessante.

«L’albergo mantiene da anni un tasso di occupazione del novantaquattro per cento» spiegò. «Il trust del signor Conti – pardon, ora il suo trust – è sempre stato un proprietario corretto e attento alla qualità.»

Ascoltavo, ma dentro di me lottavano altre due immagini:
la me stessa seduta su una piccola sedia di plastica in una classe di scuola elementare…
e la me stessa che camminava in un resort a cinque stelle che, apparentemente, mi apparteneva.

Quella notte, nella suite che mi avevano preparato, con vista sul mare nero punteggiato di luci, presi il telefono.

Il gruppo di famiglia era impazzito di messaggi:
foto dell’attico a Milano, progetti per la villa in Sardegna, idee per la ristrutturazione della tenuta in Toscana.

Nessuno, ancora una volta, mi chiedeva: «Chiara, e tu? Cosa ti ha lasciato il nonno?»

Digitai una frase, poi la cancellai.
Ancora. E ancora.

Alla fine, spensi lo schermo.

Il giorno dopo, Alexandre mi parlò di un altro viaggio.

«Il complesso di Las Vegas è il secondo pilastro del suo patrimonio. Credo sia importante che lo veda di persona. Possiamo mettere a sua disposizione il jet aziendale.»

Un jet. Mio.
O meglio: del mio trust.

Sentii qualcosa cambiare dentro di me.

Fino a poche ore prima ero una maestra sottovalutata dalla sua stessa famiglia.
Ora, improvvisamente, avevo in mano una scacchiera grande quanto il mondo.

Mentre il jet decollava dal piccolo aeroporto vicino a Monaco, guardando il mare allontanarsi sotto di noi, presi la mia decisione.

Non avrei corso da loro a dire: «Guardate, avevate torto!»
No.

Nonno mi aveva insegnato a giocare a scacchi, non a scoprirsi al primo movimento.

Era arrivato il momento di pensare diversi passi avanti.

Era arrivato il momento di giocare davvero la partita.

Il jet privato decollò da un piccolo aeroporto vicino a Monaco, silenzioso e irreale.
Sullo schermo davanti al mio posto apparivano mappe, numeri, altitudini. Io guardavo solo il mare che si allontanava, pensando a una domanda semplice e tremenda:

Che cosa ne farò di tutto questo potere?

Las Vegas, qualche ora dopo, sembrava un’altra galassia: luci, cartelloni giganteschi, grattacieli di vetro e oro.
Il complesso che il mio trust possedeva lì era impossibile da ignorare: una torre altissima, rivestita di vetro, che sembrava brillare da sola nel deserto.

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