Al funerale di mio nonno mi hanno riso in faccia: loro milioni, io solo una busta misteriosa

All’aeroporto mi venne incontro una donna sui quarant’anni, elegante, sguardo sveglio.

«Signorina Conti? Piacere, sono Sarah Chen, direttrice generale del resort. La stavamo aspettando.»

La limousine che ci portò verso l’hotel era silenziosa, l’interno come il salotto di una villa.

«Da quanto tempo lavora qui?» chiesi.

«Da sette anni. È stato affascinante vedere questo posto crescere. Il suo trust è un proprietario ideale: prudente, ma aperto alle innovazioni.»

Il suo trust.
Ogni volta che qualcuno lo diceva, mi sembrava stesse parlando di un’altra persona.

Il tour fu quasi surreale.

La sala da gioco, con file di tavoli e macchine luminose.
I ristoranti pieni.
Il centro congressi.
La spa che sembrava un sogno.

In una sala riunioni, Sarah mi mostrò grafici e numeri.

«Il complesso genera circa il sessanta per cento dei ricavi dal casinò» spiegò. «Il resto viene da albergo, ristorazione, eventi e spettacoli. La redditività è alta, ma siamo molto attenti alla gestione del rischio.»

Annuii, cercando di seguire tutto.

«Il suo team finanziario ci ha già accennato a possibili espansioni all’estero» aggiunse. «Si è parlato di Dubai, Singapore…»

«Il mio team finanziario…» ripetei dentro di me.

Quella stessa sera, nella suite all’ultimo piano, mi collegai in videochiamata con persone che, teoricamente, lavoravano per me da anni.

Un consulente fiscale che compilava le mie dichiarazioni da sempre.
Un gestore patrimoniale che aveva fatto crescere il mio patrimonio da centinaia di milioni a oltre un miliardo.
Un avvocato che parlava di strutture societarie con una calma da chirurgo.

«Signorina Conti» disse il gestore, «suo nonno aveva previsto che, una volta informata, avrebbe voluto prendere decisioni importanti. Soprattutto in paesi a cui è legata personalmente.»

«Paesi a cui sono legata…»

Mi venne in mente il porto di Genova.
Le navi con il logo della nostra azienda di famiglia.
Le sere in cui nonno mi spiegava le rotte sulle carte nautiche.

E, subito dopo, mi vennero in mente le frasi sfuggite a mio padre negli ultimi anni: le difficoltà, i debiti per l’ampliamento della flotta, le notti insonni.

Più tardi, a cena con Sarah, buttai lì una domanda che, per loro, doveva sembrare teorica.

«Se qualcuno volesse comprare una piccola azienda di trasporti marittimi, diciamo del valore di una trentina di milioni, come funzionerebbe?»

Sarah mi guardò con curiosità.

«Onestamente? Per un patrimonio come il suo, sarebbe un investimento di piccole dimensioni. Si potrebbe fare attraverso una società già esistente, in modo discreto. Contanti, tempi rapidi, clausole favorevoli ai dipendenti.»

«Quindi sarebbe… facile.»

«Facile no, ma certamente fattibile. Bisognerebbe analizzare i bilanci, i debiti, il flusso di cassa. Ma se l’azienda è sana, è una questione di volontà e strategia.»

Più tardi, in camera, chiamai Alexandre.

«Vorrei che il mio team analizzasse una società» dissi. «Una società italiana di trasporti marittimi.»

«Il nome?»

Glielo dissi. Quello della nostra azienda di famiglia.

Dall’altra parte della linea ci fu un breve silenzio.

«Capisco» rispose infine. «Lo faremo. Ma prima devo chiederle una cosa: è sicura di voler mescolare, da subito, affari e famiglia?»

Mi affacciai alla finestra.
Sotto di me, la città brillava. In testa mi rimbombavano ancora le risate allo studio del notaio.

«Non voglio rubare niente a nessuno, Alexandre» dissi piano. «Voglio solo evitare che un’azienda costruita da mio nonno e da mio padre affondi per mancanza di capitale. Se un compratore deve esserci, preferisco che sia io.»

«Allora la aiuteremo» rispose. «Ma tenga presente che questo sarà il suo primo vero movimento sulla scacchiera.»


Qualche giorno dopo, ero di nuovo nel mio piccolo appartamento in periferia, in Italia.
Sul tavolo, ancora la tazza della colazione, il quaderno con i nomi dei miei alunni, un vaso di basilico sul davanzale.

Sul computer, invece, avevo appena finito di leggere una relazione di cinquanta pagine sull’azienda che portava il nostro cognome.

Numeri chiari:

  • azienda redditizia,
  • ma molto indebitata,
  • flusso di cassa tirato,
  • prossimi mesi delicati.

Il telefono squillò. Sarah, da Las Vegas.

«Chiara, l’analisi è pronta. La sua azienda di famiglia è esattamente come se la immaginava: solida nel lavoro, fragile nella liquidità.»

«È salvabile?»

«Con un’iniezione di capitale e una gestione finanziaria più strutturata, sì. Senza, rischia di dover vendere navi o farsi comprare a condizioni peggiori.»

«E se… ce ne occupassimo noi?»

«Possiamo fare un’offerta tramite una nostra società con sede all’estero. Un nome neutro. I suoi non sospetteranno nulla. Sarebbe un’operazione pulita, con clausole di tutela per i dipendenti.»

Pensai ai marinai, agli impiegati dell’ufficio, ai meccanici che avevo visto da bambina nel cantiere.

«Fatelo» dissi. «Voglio un’offerta generosa, ma ferma. Che non possano rifiutare facilmente.»

«E se rifiutano?»

«Allora vorrà dire che mio padre preferisce rischiare di perdere tutto, piuttosto che vendere. Ma conosco papà. Quando vede numeri chiari, ascolta.»

Chiusi e rimasi qualche minuto a guardare il vecchio armadio dell’Ikea.
Era tutto così piccolo rispetto a quello che stavo maneggiando… eppure, in quella stanza, ero diventata chi ero davvero.


Quella sera, cena di famiglia a casa dei miei.

Tovaglia buona, vino buono, discorsi… sempre gli stessi.

Luca mostrava alla nonna foto di auto sportive.
Francesca faceva vedere sul telefono progetti di ristrutturazione per la villa in Sardegna.
Mamma parlava della tenuta in Toscana come se fosse sempre stata sua.

«E la tua “vacanza” a Monaco?» mi chiese, a un certo punto, Luca con un sorrisetto. «Ti sei fatta qualche foto con gli yacht degli altri?»

«È stata istruttiva» risposi. «Diciamo che ho imparato parecchio.»

«Istruttiva in che senso?» chiese papà, versandosi altro vino.

Lo fissai un istante.

«Ho visto da vicino come funziona il mondo quando i numeri hanno tanti zeri» dissi. «E quanto conta saper leggere i bilanci.»

Papà si irrigidì appena.
Ci mise pochi secondi a cambiare argomento.

«Comunque l’azienda va bene» disse, come per rassicurare sé stesso. «Le nuove navi ci daranno una posizione forte sulle rotte principali.»

«E il debito per comprarle?» chiesi, con voce il più possibile neutra. «Il flusso di cassa regge?»

Si voltò verso di me, sorpreso.

«Da quando ti interessi di flussi di cassa, Chiara?»

«Nonno diceva sempre che è il numero più importante per un’azienda» ribattei piano. «Fatturare è facile, incassare è un’altra storia.»

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