Mamma rise, ma stavolta con un filo di nervosismo.
— «Lascia queste cose agli uomini di famiglia, amore. Tu sei brava con i bambini, i conti li fa tuo padre.»
Sorrisi. Dentro di me, però, una parte si stava indurendo.
Quella notte, nel mio appartamento, arrivò la chiamata che stavo aspettando.
— «Chiara, abbiamo pronto il testo dell’offerta» disse il gestore. «Società acquirente: MareBlu Investments SA, sede all’estero. Prezzo: quarantacinque milioni di euro. È circa il trenta per cento sopra il valore contabile.»
— «Clausole per i dipendenti?»
— «Tutela totale per almeno tre anni, mantenimento della dirigenza attuale, possibilità per suo padre di restare direttore generale, se lo desidera.»
Chiusi gli occhi.
— «Inviatela» dissi. «Domani mattina. E voglio essere informata appena reagiscono.»
La risposta non si fece attendere.
Il giorno dopo, a metà della pausa pranzo a scuola, il telefono vibrò.
Sul display: Papà.
Risposi.
— «Chiara, è successa una cosa strana» disse senza preamboli. «Abbiamo ricevuto un’offerta per l’azienda. Da un gruppo di investitori stranieri.»
Mi sedetti sul bordo della sedia.
— «Strana in che senso?»
— «È… molto buona. Quasi troppo buona. Offrono quarantacinque milioni. Vogliono chiudere in fretta.»
— «E il tuo avvocato cosa dice?»
— «Che è seria. Professionale. Ma non capisce perché siano così interessati a noi. Non siamo una multinazionale.»
Sorrisi appena.
— «Forse vedono qualcosa che tu, da dentro, non vedi» suggerii. «Comunque… vuoi parlarne con calma? Magari a cena?»
— «Sì. Vieni domani sera. Voglio che guardi i documenti. Sei sempre stata brava con i dettagli.»
Chiusi la chiamata e rimasi un attimo in silenzio nell’aula vuota, con i disegni dei bambini alle pareti.
“Brava con i dettagli”.
Se solo avesse visto i documenti che avevo letto negli ultimi giorni…
La sera dopo, il tavolo di casa nostra sembrava la sala riunioni di un’azienda.
Contratti, bilanci, relazioni stampate.
Papà parlava con la fronte corrugata.
— «Questi investitori, la MareBlu, dicono di voler mantenere la struttura attuale, non licenziare nessuno, tenere la sede a Genova. Offrono contanti, niente titoli rischiosi.»
Luca, appoggiato allo schienale, commentò:
— «Papà, quarantacinque milioni sono una follia. Prendili e basta.»
Francesca annuì subito.
— «Vendere e andare in pensione al mare. Cosa vuoi di più dalla vita?»
Papà scosse la testa.
— «Non è così semplice. Questa azienda è la mia vita. È il lavoro di tuo nonno, e poi il mio.»
Presi il fascicolo dell’offerta e iniziai a leggere con attenzione.
Sapevo già cosa c’era scritto… ma li guardavo con occhi “nuovi”, quelli che loro vedevano per la prima volta.
— «Le clausole sui dipendenti sono buone» dissi piano. «Tre anni garantiti, nessun trasferimento forzato, investimenti promessi sulla flotta. E il prezzo è alto, considerando la situazione del debito.»
Papà mi fissò.
— «Come fai a saperlo?»
Alzai le spalle.
— «Ho letto qualche libro, ho seguito un po’ di corsi online, ho ascoltato le storie del nonno. Le sue frasi sugli affari mi sono rimaste in testa.»
Mamma mi guardò come se, all’improvviso, parlassi un’altra lingua.
— «Non ti avevo mai sentita parlare così di business…»
— «Nessuno mi ha mai chiesto cosa pensassi del business» risposi, senza aggressività.
Il discorso andò avanti per ore.
Papà oscillava tra orgoglio e stanchezza.
Tra attaccamento emotivo e paura concreta.
— «Se non vendo?» chiese a un certo punto, più a sé stesso che a noi. «Se rifiuto?»
Conoscevo già la risposta dai report ricevuti.
— «Allora dovrai trovare altri soldi» dissi piano. «Altri debiti. Altri rischi. E ogni crisi di mercato potrebbe essere quella che ti fa affondare.»
Alla fine, il silenzio calò sul tavolo.
Si sentiva solo l’orologio appeso alla parete della cucina.
— «La scadenza?» domandai.
— «Venerdì, alle diciassette» rispose papà.
— «E cosa ti dice la pancia?»
Lui si passò una mano sul viso.
— «Che non posso andare avanti così. Non ho più trent’anni. Non dormo la notte da mesi per via dei conti.»
Guardò i documenti, poi noi.
— «Credo che venderò» mormorò. «È il momento di lasciare andare.»
Mamma gli strinse la mano.
Luca e Francesca, già nella testa, cominciavano a dividere quei milioni.
Io, invece, sentii qualcosa che assomigliava… a un nodo in gola.
E a una soddisfazione amara.
Venerdì, alle 16:47, papà firmò.
Alle 17:15, non era più proprietario dell’azienda che portava il nostro cognome.
Alle 17:30, quella stessa azienda era ufficialmente di proprietà di una società controllata dal mio trust.
Il telefono squillò.
— «Chiara, qui Sarah» disse la voce, allegra. «L’operazione è conclusa. La MareBlu è ora proprietaria al cento per cento della Conti Trasporti Marittimi. Complimenti, è la sua prima acquisizione familiare.»
Mi appoggiai alla sedia della cucina.
— «E i dipendenti?»
— «Tutti confermati. Stesse sedi, stessi turni, nessuno spostamento. Solo una struttura finanziaria più solida alle spalle.»
— «E mio padre?»
— «Gli verrà proposto un contratto come direttore generale. Stesse responsabilità operative, ma senza il peso del debito sulle spalle. Deciderà lui se accettare.»
Chiusi gli occhi un istante.
Non era vendetta.
Non solo, almeno.
Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬






