Al mio matrimonio ho visto mia suocera drogare il mio bicchiere: ho scambiato lo spumante e la mia vita

«Credo di sì,» mormorò. «Non ricordo bene. Tutto è confuso. Ho avuto un malore subito dopo. Ma non ho mai, mai voluto fare del male a Laura. È come una figlia per me.»

Mi sentii stringere lo stomaco.

Poi arrivò il turno del PM.

«Signora Rinaldi,» cominciò con calma, «lei sostiene di essersi confusa, giusto?»

«Sì.»

«Allora perché, nel video, la vediamo chinarsi per leggere i nomi sui segnaposto, e gettare la compressa proprio nel bicchiere con scritto “Laura”?»

«Ero agitata, non ragionavo. Ho letto male.»

«Ha letto male un nome di cinque lettere?»
L’aula trattenne il respiro.

Carla si passò la lingua sulle labbra. «Ho già detto che non ricordo tutto con chiarezza. So solo che… che stavo male.»

«Quando è arrivata all’ospedale,» incalzò il PM, «ha avuto molte ore per parlare con i medici. Perché non ha detto a nessuno di aver preso una compressa di sua sorella?»

Silenzio.

«Per vergogna?» suggerì il PM. «Per paura che pensassero che lei non regge lo stress?»

«Sì,» disse infine lei. «Forse sì. Non volevo ammettere di non essere stata all’altezza.»

«O,» ribatté il PM, «perché sapeva di aver fatto qualcosa che non poteva spiegare.»

Il giudice la richiamò: «Pubblico Ministero, resti sui fatti.»

Il PM annuì. «Un’ultima domanda, signora Rinaldi. Lei ha detto che Laura è “come una figlia” per lei. Può spiegare allora perché, mentre lei ballava, distruggeva la torta e perdeva il controllo, non è mai uscita dalla sua bocca una frase del tipo: “Attenzione, forse ho preso un farmaco sbagliato”? Nessun avvertimento, nessuna richiesta di aiuto prima del crollo.»

Carla aprì la bocca.
La richiuse.
Le lacrime le salirono agli occhi.

«Non lo so,» sussurrò. «Non lo so.»

Non so se in quel momento fosse sincera o se stesse solo recitando.
Quello che so è che, per la prima volta, non aveva una risposta pronta.


I giudici si ritirarono per deliberare.
Noi restammo ad aspettare nei corridoi del Tribunale.

Io seduta su una panca, le mani intrecciate.
Daniele accanto a me.
I miei genitori poco più in là.

Andrea camminava avanti e indietro, il viso tirato. Roberto era in un angolo, a parlare sottovoce con l’avvocato Gori. Sembrava invecchiato di dieci anni.

«Qualunque cosa decideranno,» mi disse Daniele piano, «io ti credo. Non è la sentenza che me lo dice.»

«Lo so,» risposi. Eppure il responso mi sembrava comunque vitale. Non solo per la giustizia, ma per la mia stessa percezione di ciò che era accaduto.

Dopo alcune ore ci richiamarono in aula.

Ci alzammo tutti in piedi quando i giudici rientrarono.

Il presidente lesse il dispositivo di sentenza con la solennità di rito.

«In merito al capo di imputazione di tentato avvelenamento…»
Una pausa che mi sembrò interminabile.
«…dichiara l’imputata Carla Rinaldi colpevole.»

Il fiato mi uscì dai polmoni senza che me ne rendessi conto.

«In merito al capo di imputazione di lesioni personali colpose e messa in pericolo della pubblica incolumità…
…dichiara l’imputata colpevole.»

Un mormorio attraversò l’aula.
Carla scoppiò a piangere.
L’avvocato Gori le sussurrò qualcosa all’orecchio.

Io rimasi immobile, come se fossi stata scolpita sul posto.

Non provai gioia.
Non subito.

Provai sollievo.
E un’enorme, devastante tristezza.

Perché la verità, una volta detta, non sistema magicamente le cose.
Spesso le rompe del tutto, per poterle ricostruire da capo.


La sentenza vera e propria arrivò qualche settimana dopo, all’udienza dedicata alla quantificazione della pena.

Ci dissero che, tenuto conto della gravità del gesto, del fatto che fosse stato premeditato e del contesto pubblico, ma anche della mancanza di precedenti e dell’età di Carla, i giudici avevano deciso:

tre anni di reclusione,
due anni di libertà vigilata dopo la scarcerazione,
un risarcimento economico a mio favore per le spese mediche, legali e il danno morale.

Quando la giudice lesse «tre anni», Carla si piegò su se stessa.
Le mani le tremavano.
Un agente le stese una mano per sorreggerla.

In quel momento non vidi più la suocera che mi aveva umiliata per due anni.
Vidi una donna sola, che aveva fatto una scelta terribile e ne stava pagando il prezzo.

E mi sorpresi a pensare: Quanto devi essere spezzata dentro, per arrivare a questo?

Ma quella pietà non cancellava il fatto fondamentale:
aveva provato a distruggermi.
E se non avessi reagito, ci sarebbe riuscita.

Quando la portarono via, ammanettata, si voltò verso di noi.
I suoi occhi trovarono quelli di Daniele.

«Mi dispiace,» mormorò, anche se il vetro tra di noi e la distanza rendevano le parole quasi mute.

Non guardò me.
Non quel giorno.


Le conseguenze furono veloci, e spietate.

Le associazioni in cui Carla era stata per anni un volto noto la invitarono “a dimettersi spontaneamente, per il bene dell’immagine dell’ente”.
Il circolo esclusivo dove pranzava e giocava a carte più volte la settimana le revocò la tessera.
La stampa locale non si perse l’occasione per titoli facili:

«Dalla beneficenza al Tribunale: il crollo della signora perfetta.»

Roberto, dopo qualche mese, chiese il divorzio.

«Non può sopportare l’idea che la gente lo identifichi con lei,» mi disse Daniele un pomeriggio, tornando da un incontro con il padre. «Dice che non la riconosce più, che è un’altra persona.»

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