Al mio matrimonio ho visto mia suocera drogare il mio bicchiere: ho scambiato lo spumante e la mia vita

«Ti senti svuotata?» chiese lui.

«Sì,» risposi. «Ma anche più leggera.»


Nei giorni successivi mi arrivarono decine di mail.

Alcune curiose, inutili.
Altre rabbiose, da parte di sconosciuti che avevano deciso che avevo “esagerato”.

Ma tante, tantissime, erano piene di gratitudine.

Una in particolare mi colpì.

Era di una ragazza che si firmava “Bea”.

Scriveva:
«Sto per sposarmi e la madre del mio fidanzato mi sta facendo vivere un inferno. Mi sentivo esagerata a lamentarmi, mi dicevo che è normale avere frizioni con la suocera. Dopo aver visto la tua storia ho capito che non sono pazza, che certe cose non sono normali. Ho fatto vedere il documentario al mio compagno. Per la prima volta mi ha creduta davvero. Ora stiamo facendo terapia di coppia e stiamo mettendo dei limiti chiari.
Non so come andrà, ma so che non mi farò più calpestare. Grazie.»

Gliela lessi ad alta voce.
Daniele, commosso, sospirò.

«Allora è servito qualcosa,» disse. «Non solo a noi.»


Gli anni passarono.

Non in un lampo – la vita vera non è un montaggio veloce – ma con lentezza: stagione dopo stagione, piccolo passo dopo piccolo passo.

Io tornai a essere, per la maggior parte delle persone, «la prof di italiano» e non «quella del matrimonio».
Daniele cambiò lavoro, lasciando lo studio prestigioso di suo padre per uno più piccolo, dove si occupava di cause sociali e famiglie in difficoltà.

«Ho visto da vicino cosa può fare una famiglia malata,» diceva. «Ora voglio lavorare per quelle che cercano di guarire.»

Andrea, dopo anni di tentativi e terapie, si iscrisse di nuovo all’università, in Scienze dell’educazione.
«Voglio lavorare con i ragazzi che vengono da famiglie complicate,» spiegava. «Magari li capisco meglio di altri.»

Dopo qualche tempo, io e Daniele ci trasferimmo in un’altra città, non lontanissima ma abbastanza da cambiare aria.
Una casa più grande, un piccolo giardino, il rumore del treno in lontananza.

Fu lì che, dieci anni dopo quel famoso brindisi, scoprimmo che aspettavamo un bambino.

Ricordo ancora il test appoggiato sul lavandino e il mio cuore che batteva come il primo giorno in cui avevo visto Daniele all’università.

Quando glielo mostrai, lui rimase un secondo immobile.
Poi mi abbracciò così forte che quasi mi mancò il fiato.

«Diventerò un padre,» ripeteva. «E farò l’esatto opposto di quello che ho vissuto.»

«Non devi essere l’opposto,» gli dissi. «Devi essere te. E fidarti che non sei lei.»

Nacque una bambina, in una mattina fredda di gennaio.

La chiamammo Grazia.
Perché è così che sentivamo la sua presenza: una grazia, un regalo non scontato dopo tutto quello che avevamo passato.

Mia madre la prese in braccio e pianse.
Mio padre le cantò una ninna nanna stonata.
Andrea la guardò a lungo, serio, e disse: «Tu non hai idea da dove vieni, piccola. Ma spero che un giorno capirai dove sei arrivata.»

Con Grazia arrivarono nuove paure, nuove ansie.

«E se un giorno assomigliassi a mia madre senza accorgermene?» mi confessò Daniele, una sera, mentre la cullava.

«Allora io ti prenderò da parte e ti dirò: “Ehi, stai esagerando”,» risposi. «Così come tu farai con me, se mai inizierò a controllare troppo.»

Era questo, in fondo, il patto: niente ruoli sacri, solo due persone che cercano di restare lucide.

Qualche anno dopo nacque un maschietto, Luca.
Più vivace della sorella, sempre in movimento, sempre con qualcosa in mano da smontare e rimontare.

La casa si riempì di zaini, disegni, scarpe spaiate, urla, risate.

Non era la vita perfetta delle riviste, ma era la nostra.
E sembrava quasi incredibile che tutto fosse cominciato con un bicchiere di spumante.


Di Carla, per molto tempo, non si seppe quasi nulla.

Sapevamo che aveva scontato due anni in un istituto a custodia attenuata e che poi era uscita con una forma di libertà controllata.
Sapevamo che il divorzio con Roberto era diventato definitivo.
Sapevamo che alcune conoscenze di vecchia data ancora la difendevano, dicendo che “aveva pagato fin troppo”.

Ogni tanto, Andrea riceveva una lettera.

«Mi scrive che lavora come segretaria in uno studio medico di provincia,» ci raccontava. «Che abita in un bilocale e che va a fare volontariato in un centro per donne che vogliono uscire da relazioni violente.»

La prima volta che lo disse, rimasi spiazzata.
«È un po’ ironico,» commentai. «Lei che ha usato il suo potere per schiacciare, adesso aiuta chi viene schiacciata.»

«Lo sa anche lei,» rispose Andrea. «Nelle lettere non si giustifica. Dice solo che cerca di fare qualcosa di buono, anche se sa che non cancellerà quello che ha fatto.»

Daniele, per molto tempo, non le scrisse.
Era troppo.
Troppo presto.


Dodici anni dopo il matrimonio, una mattina qualsiasi, la incontrai.

E non in tribunale, non in televisione, non sui giornali.
Al supermercato.

Ero al reparto frutta con Grazia, che insisteva per scegliere da sola le mele “rosse ma non troppo”.
Stavo controllando i prezzi quando alzai gli occhi.

A due metri da me, con un carrello semivuoto, c’era Carla.

Più magra, i capelli quasi bianchi, un cappotto semplice.
Nel carrello: pane, latte, qualche verdura, una confezione di pasta in offerta.

Per un attimo il tempo si fermò.
Io la guardai.
Lei mi guardò.

Grazia tirò il mio braccio. «Mamma, posso prendere le fragole?»

«Sì, amore,» dissi istintivamente, senza distogliere lo sguardo da Carla.

Fu lei a parlare per prima.

«Laura.»

La sua voce era più bassa, ruvida.
Non c’era più dentro quella sicurezza lucida di un tempo.

«Lo so che non dovrei avvicinarmi,» disse piano, «ma l’ordinanza è scaduta, e… non voglio disturbarti. Solo… se mi permetti, due parole.»

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