Leggendo quelle frasi, sentii un’ondata di rabbia salire.
«Vittima?» sbottai con Daniele, sbattendo il giornale sul tavolo. «Ha messo una pillola nel mio bicchiere! Se non l’avessi vista, oggi sarei io quella ridicolizzata in tutti questi video.»
«Lo so,» disse lui piano. «Lo so benissimo. Ma là fuori la gente vede solo i filmati della torta. Le immagini delle telecamere non le hanno viste tutti, almeno non ancora. È normale che ci siano opinioni diverse.»
«Non è normale che io perda il lavoro, che tu debba vergognarti ad andare in ufficio, che tua madre cerchi di passare per santa martire,» ribattei. «E tutto questo perché ho osato dire la verità.»
Daniele abbassò lo sguardo.
«Ti chiedo solo una cosa,» disse. «Qualunque cosa succeda, qualunque commento uscirà, non tenerti tutto dentro. Parlami. Non voglio perderti di nuovo.»
Lo guardai. Non era colpevole di ciò che aveva fatto sua madre. Ma era comunque nel mezzo: figlio dell’imputata e marito della “vittima”. Diviso in due.
«Lo prometto,» dissi. «Ma tu promettimi una cosa: che non cercherai più di giustificarla dentro di te. Quello che ha fatto è grave. Gravissimo.»
«Non cerco di giustificarla,» rispose, con la voce bassa. «Cerco di accettare che la donna che mi ha cresciuto è anche la persona che ti ha messo una pastiglia nel bicchiere. E che, se non avessi visto, avrebbe lasciato che la bevessi.»
Quella frase lo ferì mentre la pronunciava.
Ma era vera.
L’indagine andò avanti veloce.
Carla venne formalmente accusata di tentato avvelenamento e di aver messo in pericolo la salute altrui. Il suo avvocato chiese che rimanesse ai domiciliari, in attesa del processo. Il giudice accettò, vista l’assenza di precedenti penali e le condizioni di salute relativamente fragili.
Non poteva contattare me né avvicinarsi a me.
Quella parte mi fece tirare un lieve sospiro di sollievo.
Ma non poteva impedire alla gente di parlare, di giudicare, di schierarsi.
La città si divise.
C’era chi diceva: «Se le telecamere la riprendono, vuol dire che è colpevole, punto.»
C’era chi ribatteva: «Magari voleva prendersi una medicina sua e si è confusa, poveretta.»
C’era chi, senza conoscere nessuno di noi, aveva già deciso che io ero una “arrampicatrice sociale” che voleva rovinare la famiglia del marito.
Leggevo commenti ogni volta che non resistevo alla tentazione di cercare il mio nome online. A volte piangevo, a volte ridevo amaramente, a volte chiudevo tutto di colpo.
«Smettila di cercare,» mi diceva Giulia. «Non ti fa bene.»
«Lo so,» rispondevo. «Ma è più forte di me. È come guardare una ferita allo specchio.»
L’unica cosa positiva era che, nella tempesta, io e Daniele eravamo tornati dalla stessa parte.
Dormiva da me, mi accompagnava alle eventuali convocazioni, si sedeva accanto a me quando arrivavano lettere degli avvocati, prendeva la mia mano in tribunale quando i nostri nomi venivano chiamati.
Passammo serate intere a parlare di sua infanzia.
Di come Carla controllava tutto: i voti a scuola, i vestiti, gli amici.
Di come suo padre fosse spesso assente, fisicamente o mentalmente.
«Era sempre tutto perfetto,» ricordava lui. «La casa, le cene, le foto. Se qualcosa usciva dal copione, mia madre andava nel panico. Ma lo nascondeva. Sorriso, capelli in ordine, voce gentile, e intanto ti faceva sentire in colpa per qualsiasi cosa. Io pensavo fosse normale. Solo dopo, con te, ho capito che non lo era.»
«E quando hai iniziato a frequentare me?» chiesi una sera.
Lui sorrise amaramente. «È stato il primo vero “no” che le ho detto. Per la prima volta non ho scelto in base a quello che pensava lei, ma in base a quello che sentivo io. Non sei il tipo di donna che lei aveva immaginato per suo figlio. Avrebbe preferito qualcuna del suo giro, con il cognome giusto, la famiglia giusta, gli inviti ai circoli giusti.»
«Una che potesse esibire ai pranzi di beneficenza,» commentai.
«Esatto,» annuì. «Tu, insegnante in una scuola di provincia, con una famiglia normale, per lei eri… troppo poco. Anche se non lo ha mai detto apertamente.»
«Non ne aveva bisogno,» sospirai. «Le sue facce parlavano da sole.»
Ci guardammo.
Era una verità dolorosa, ma chiara.
Carla non aveva cercato di distruggermi per caso.
Era il culmine di anni di controllo.
Solo che questa volta, invece di un commento acido o un invito “dimenticato”, aveva superato un limite che non si può superare.
Aveva messo una pillola nel mio bicchiere.
E ora, finalmente, il mondo intero stava iniziando a vedere chi fosse davvero, dietro la facciata della “signora perbene”.
Il processo venne fissato per qualche mese dopo.
In quei mesi, provai a riprendere una parvenza di normalità. Tornai a scuola, anche se all’inizio gli sguardi dei colleghi e dei genitori mi bruciavano addosso.
«Quella è la prof del matrimonio virale,» sussurravano alcuni studenti ai nuovi arrivati. Poi, in classe, si comportavano come sempre, e questo era quasi salvifico.
La sera, però, l’ansia tornava.
Sognavo bicchieri che si moltiplicavano sul tavolo.
Pastiglie che cadevano a rallentatore.
Risate di decine di persone mentre io mi muovevo in modo scomposto, senza controllo.
Daniele insisteva perché vedessimo uno psicologo.
«Quello che hai vissuto è un trauma,» diceva. «Non devi affrontarlo da sola.»
Accettai.
Iniziare un percorso di terapia fu una delle poche decisioni davvero buone che presi in quel periodo. Imparai a riconoscere la paura, a non vergognarmi di aver reagito scambiando i bicchieri, a capire che difendermi non mi rendeva cattiva.
«Ha scelto lei di fare quel gesto,» mi disse la psicologa, una donna dai modi dolci ma fermi. «Lei ha tradito il ruolo di madre e di suocera. Lei ha rotto il patto di fiducia. Non sei tu la causa della sua rovina. Tu sei colei che è sopravvissuta.»
Quelle parole cominciarono a scavarmi dentro. Piano, senza fretta.
Preparandomi a quello che sarebbe venuto dopo.
Perché sapevo che il peggio doveva ancora arrivare:
il momento di guardare Carla negli occhi in aula,
di raccontare davanti a un giudice e a dodici estranei cosa avevo visto,
di difendere la mia versione contro quella di chi avrebbe giurato di amarmi “come una figlia”.
Il giorno in cui avrei dovuto ripetere ad alta voce, senza tremare:
«Sì, è stata lei.
Sì, ha messo la pastiglia nel mio bicchiere.
Sì, ha tentato di distruggermi nel giorno del mio matrimonio.»
E quel giorno si stava avvicinando.
Il giorno del processo arrivò più in fretta di quanto pensassi, e al tempo stesso dopo un’eternità.
In quei mesi avevo imparato a vivere in una specie di limbo:
non più “solo” una sposa con un matrimonio rovinato,
non ancora “la parte civile” in un procedimento penale.
Il Tribunale dove si sarebbe tenuta l’udienza era in città. Un palazzo grande, grigio, con scale fredde e un odore di carta, caffè e pioggia portata dentro dalle scarpe.
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