Si misero davanti alla sedia come due buttafuori.
«Il tuo nome non c’è nel testamento» disse Riccardo, con la voce piatta e le braccia incrociate.
Tommaso aggiunse: «È solo per la famiglia stretta.»
Guardai i miei figli – due uomini adulti in abiti su misura – e per un attimo non riuscii a respirare. Famiglia stretta? Sono io che li ho messi al mondo. La stanza era fredda, nonostante le tende eleganti e il grande tavolo di legno lucido.
Ero in piedi vicino all’ingresso, stringendo il fascicolo blu scuro che avevo portato, come fosse uno scudo. Dentro c’erano tutti i documenti che mi servivano – non solo copie, ma gli originali. Ma in quel momento, a nessuno importava cosa avevo in mano. Né all’avvocato, né alla praticante, né ai pochi parenti lontani che quasi non alzavano gli occhi.
«Ho ricevuto una lettera» dissi piano, «dallo Studio Legale Ferri & Conti. Con questo indirizzo e questa data.»
Riccardo sbuffò. «Si saranno sbagliati. Adesso gestiamo noi la successione.»
«Zia Anna ci ha nominati amministratori lo scorso autunno» aggiunse Tommaso. «Non aveva figli.»
«Io sono sua sorella» dissi.
Tommaso fece mezzo sorriso, lo stesso che faceva da ragazzo quando cercava di spiegarmi qualche cosa al computer che io non avevo mai chiesto. «Mamma, guarda… in questa versione il tuo nome non c’è. Te lo spieghiamo con calma dopo. Per ora, ti prego, non fare scenate.»
Abbassai lo sguardo sul pavimento. Moquette consumata, color beige con puntini verdi, una macchia vicino al mobile bar. Forse caffè. Lasciai che il silenzio si allungasse, poi feci un passo avanti.
«Non sono qui per fare scenate» dissi lentamente. «Sono qui perché Anna voleva che ci fossi.»
«Non sei nell’elenco» intervenne la segretaria dietro la scrivania. Sul cartellino c’era scritto L. Serra. Sembrava giovane, a disagio. Non la biasimavo.
«Lei avrebbe voluto che fossi qui» ripetei, stavolta non a loro, ma alla stanza stessa. Feci un altro passo, aprii il fascicolo e porsi un documento alla signora Serra. «Per favore lo consegni all’avvocato Rinaldi. Credo che superi qualsiasi modifica fatta lo scorso autunno.»
La ragazza sbatté le palpebre, poi prese il foglio e si avviò verso la porta in fondo alla sala. Riccardo iniziò a dire qualcosa, ma Tommaso lo tirò per un braccio.
«Aspettiamo» borbottò.
Mi sedetti sulla sedia che mi avevano sbarrato. Nessuno dei due provò a fermarmi. Il fascicolo era ancora sulle mie ginocchia, ma non lo tenevo più come uno scudo. Lo tenevo come una prova.
Non avevo programmato di parlare per prima. Nella mia testa mi ero immaginata questa scena in modo diverso: la cerimonia, il tono formale, la lettura solenne. Una cosa seria, come è giusto che sia. Non questo, non questi piccoli giochetti di porta chiusa.
Alzai gli occhi e incrociai lo sguardo di un cugino che non vedevo da vent’anni. Mi fece un cenno appena accennato. Glielo restituii. La porta si aprì.
Entrò l’avvocato Rinaldi, alto, la barba grigia, e sempre una specie di polvere sulle spalle della giacca, come se vivesse in mezzo ai libri. Aveva in mano il documento che gli aveva portato la segretaria e lo sfogliava con calma studiata.
«Signora De Luca» disse. «Posso parlarle in privato un momento?»
Riccardo si irrigidì. «Ci è stato detto che questa riunione è riservata.»
Rinaldi lo ignorò. «Riguarda alcuni atti congiunti del 2008. Vuole seguirmi, per favore?»
Mi alzai e lo seguii lungo il corridoio. Le gambe erano sorprendentemente ferme, nonostante il peso che sentivo nel petto. Il suo ufficio sapeva di legno e cedro. Non c’erano sedie, solo un bancone alto.
Stese il documento sul piano. «Questo è… inatteso» disse. «Nel 2008 lei e sua sorella Anna avete firmato un testamento reciproco, registrato e vidimato in tribunale. È precedente alla revisione che i suoi figli hanno presentato.»
«L’ha voluto lei» dissi. «Non si fidava di nessun altro tranne che di me.»
Lui alzò lo sguardo. «Dal punto di vista legale, questo annulla tutte le modifiche successive, a meno che non sia stato revocato alla presenza di entrambe. È successo?»
«No.»
Annui una sola volta. «Allora lei è l’unica erede. L’intero patrimonio.»
«La casa? Il terreno? I conti?»
Una breve pausa. «I suoi figli non lo sanno.»
«Lo sospettano. Ma no, non lo sanno.»
Sospirò piano. «Vuole che sia io a informarli?»
«No» dissi. «Che lo sentano durante la lettura, insieme agli altri.»
Mi studiò, poi richiuse il fascicolo. «Rimane per la lettura?»
«Sì» risposi. «Adesso che mi è stato “permesso” di sedermi.»
Quando tornai nella sala, nessuno dei miei figli mi guardò. Ma vidi le loro spalle cambiare, un irrigidirsi diverso. Capivano che qualcosa si era spostato. E per la prima volta, non mi sentivo io quella che aspettava di essere ammessa.
La casa era silenziosa quando rientrai quella sera, ma non quel silenzio buono che ti avvolge. Era il tipo di silenzio che ti fa pensare che persino i muri trattengano il respiro. Appesi il cappotto, mi tolsi le scarpe e andai dritta in cucina.
La luce sopra il lavello sfarfallava. Lo faceva da mesi, ma non avevo mai avuto voglia di sistemarla. Nessun altro entrava lì se non io. Misi l’acqua a bollire per il tè, anche se lo stomaco era troppo stretto per bere. Abitudine.
C’era stato un tempo in cui questa cucina era piena di voci. Riccardo che litigava con Tommaso per i cereali, Anna che rideva appoggiata allo stipite, Enrico – mio marito – che faceva tintinnare la sua tazza contro la mia solo per farmi sorridere prima di andare al lavoro. Un’altra vita.
Enrico è morto ventidue anni fa, appena dopo l’inizio dell’anno. Cuore. È crollato prima che riuscissi a far arrivare l’ambulanza. Ricordo di essere rimasta seduta sul balcone in vestaglia, la neve che mi entrava nelle pantofole, il telefono che mi scivolava dalla mano.
Riccardo aveva ventitré anni. Tommaso appena venti. Furono distrutti… per una settimana. Poi tutto divenne pratico. Chi prende la macchina? Chi paga il mutuo? Chi si occupa dell’assicurazione?
Erano saliti sul treno dell’età adulta come si salta su un regionale in corsa: in fretta, rumorosamente, senza guardare dove si mettono i piedi. All’inizio non mi dava fastidio. Ero fiera di loro.
Riccardo era entrato nel campo immobiliare, e in due anni aveva iniziato a guadagnare bene. È sempre stato affascinante, con la parola pronta, capace di convincere chiunque. Tommaso era rimasto in città, aveva iniziato a lavorare come meccanico e poi aveva aperto un’officina con un amico delle superiori: diceva che gli piaceva “lavorare con le mani”.
Li ho aiutati tutti e due. Ho sempre aiutato. Quando il primo affare di Riccardo andò a monte e gli servivano dei soldi per coprire il buco, gli feci un assegno. Quando il socio di Tommaso scappò con i soldi dell’officina, misi mano alla mia pensione. Niente domande. Solo amore.
È quello che fanno le madri. E quando Anna iniziò a star male, quando le sue lettere smisero di essere buffe e cominciarono a ripetersi uguali, quando non ricordava più cosa aveva detto cinque minuti prima, fui io a trovarle un medico. Fui io a portarla a ogni visita.
Odiava l’idea di una casa di riposo, così trasformai la stanza degli ospiti in uno spazio tutto per lei. «Non è affar nostro» aveva detto un giorno Tommaso, quando gli avevo chiesto di passare a prendere le sue medicine. «È tua sorella.»
Non risposi; non c’era niente da dire. Ma Anna aveva sempre visto chiaro. La gente dice cose del genere quando pensa di essersi già presa la sua parte.
Non aveva figli, non si era mai sposata. Diceva che aveva già abbastanza famiglia da gestire, grazie. Era brillante, ironica, e si metteva il profumo anche quando non usciva di casa. Una sera, forse un anno dopo che si era trasferita da me, mi chiese se potevamo fare i testamenti insieme.
«Le persone cambiano idea quando ci sono soldi in mezzo» disse. «Meglio non dargliene l’occasione.»
Andammo da un avvocato – il precedente titolare dello studio di Rinaldi – e facemmo tutto come si deve. Due firme, due testimoni, ognuna che nominava l’altra unica erede. Ricordo di aver pensato che fosse più una formalità che una necessità, ma le andai dietro.
Gli anni passarono. La mente di Anna si affievolì, ma sorrideva ancora quando le leggevo le poesie, mi chiamava ancora «sorellina» anche quando non ricordava che giorno fosse. È morta un giovedì mattina, nel sonno, serena. Sono rimasta seduta accanto al suo letto per due ore prima di chiamare qualcuno, non per negazione, ma per rispetto. Alcune persone meritano un addio morbido.
Il funerale fu piccolo: solo famiglia e qualche vicino. Riccardo fece un discorso che sembrava imparato a memoria. Tommaso rimase rigido, le mani in tasca. Nessuno dei due l’aveva vista più di due volte nell’ultimo anno, ma dopo la cerimonia qualcosa cambiò.
Cominciarono a chiedere dell’eredità. Riccardo chiamava più spesso. Tommaso si presentava senza avvisare. Si offrivano di aiutare. «Non dovresti fare tutto da sola, mamma.»
Li lasciai fare. Li osservai. Aspettai. Quando arrivò la lettera dello Studio Ferri & Conti, non dissi niente a nessuno. Era indirizzata a me: nome e cognome, indirizzo corretto, nessun errore.
Poi, la settimana scorsa, sentii Riccardo al telefono. Pensava che fossi in giardino. «Non è necessario che venga» diceva. «Abbiamo già il testamento definitivo. È tutto sistemato.»
Salii in camera, aprii la cassaforte e tirai fuori il fascicolo blu. Tutto ciò che loro credevano “sistemato” era stato firmato via anni prima. Eppure, una parte di me sperava di sbagliarsi, sperava che fossero semplicemente disattenti, non cattivi. Ma oggi mi hanno tolto quel dubbio. Oggi mi hanno bloccato la sedia.
Anna ed io siamo nate a undici mesi di distanza, quasi esatti – «quasi gemelle» ci chiamavano una volta. Io ero quella tranquilla, sempre con un libro in mano, sempre ad osservare. Lei era la scintilla, quella con i nastri rossi nei capelli e troppe opinioni per una ragazza di quell’età. Abbiamo diviso la stessa stanza fino a sedici anni.
Lei mi ha insegnato come fingersi malata per saltare un’interrogazione, e come mentire in modo convincente se ti beccavano a rubare la torta dal frigorifero. Io le ho insegnato a fare un bilancio, a scrivere un vero biglietto di ringraziamento, e a custodire i segreti senza crollare sotto pressione. I nostri genitori sono morti giovani, in un incidente d’auto su una provinciale, una settimana prima del mio diciannovesimo compleanno. Anna ne aveva diciotto.
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