«Ho ricevuto i vostri messaggi. Al momento non sono interessata a discutere della successione. Tutte le questioni in merito sono gestite dal mio legale. Vi prego di rivolgervi direttamente a lui per qualsiasi domanda.
Mamma.»
Niente scuse, niente calore. Avrebbero capito lo stesso. Non ero arrabbiata. Ero sveglia. E quando una donna si sveglia dopo anni passati a dare, a smussare i propri spigoli per entrare negli spazi che gli altri le lasciano, non torna più a dormire.
La mattina dopo, il campanello suonò alle 9:07. Ero ancora in vestaglia, la tazza di caffè in mano. Dalla finestra vidi una macchina grigia parcheggiata male davanti al cancello. La macchina di Riccardo. Non si fermava lì da anni. Sempre troppo impegnato. Sempre “dall’altra parte della città”.
Non andai subito ad aprire. Lo lasciai aspettare. La seconda volta suonò più a lungo, con più impazienza. È sempre stato così: nervoso quando il mondo non corre al suo ritmo.
Quando aprii la porta, sfoggiò un sorriso che conoscevo bene da tutti i Natali dopo la morte di Enrico: un sorriso tirato, che non toccava gli occhi.
«Ciao, mamma» disse, come se non ci fossimo appena guardati in cagnesco nello studio legale due giorni prima. «Ero in zona.»
Alzai un sopracciglio. «Alle nove di sabato mattina?»
Rise, come se stessi scherzando. «Posso entrare?»
Esitai. Poi mi scostai. Non perché lo volessi davvero, ma perché volevo vedere fin dove era disposto a spingersi. Entrò come se conoscesse ancora a memoria la casa. Guardava in giro come se qualcosa fosse cambiato, ma non riuscisse a capire cosa. Era cambiato, sì. Ma non erano i mobili.
Non gli offrii da bere. Si sedette sul bordo della poltrona, le dita intrecciate, la giacca troppo elegante per una “visita al volo”.
«Volevo parlare» cominciò. «Ci deve essere stato un malinteso con i documenti di zia Anna. Io e Tommaso siamo rimasti… spiazzati.»
«Davvero?» chiesi piano.
Fece una pausa. «Sì. Nessuno ci aveva detto che esisteva un testamento precedente, che annulla il nuovo.»
«Perché non avete chiesto» risposi. «Avete dato per scontato. Avete dato per scontato che avesse lasciato tutto a voi, che io me ne stessi buona in un angolo, annuendo come ho sempre fatto.»
«Non la metterei così.»
«No, certo» incrociai le mani in grembo. «Tu non la metteresti così. Ma io sì. E l’ho appena fatto.»
Seguì una pausa pesante, piena di cose non dette. Poi si sporse in avanti. «Mamma, siamo famiglia. Dovremmo stare dalla stessa parte. Possiamo sistemare le cose. Possiamo trovare un accordo.»
Nella sua voce c’era quella inflessione che conoscevo bene, quella punta di persuasione.
«Sei molto bravo nel tuo lavoro, Riccardo. A convincere la gente a comprare ciò che vuoi tu.»
«Non sto cercando di venderti niente.»
«La prima volta ci sei riuscito» lo interruppi. «Quando mi hai detto che sarebbe stato meglio intestare a te la casa, così, “per le tasse”.»
Chiuse la bocca e abbassò lo sguardo. Eccolo, il punto.
«Non sono arrabbiata» dissi. «Non è questo il punto. Sono arrivata al capolinea. Ho preso le mie decisioni. Tutto è in mano al mio avvocato, e se proverai a contestare, verrai escluso da qualsiasi cosa dipenda ancora da me.»
Alzò lo sguardo. «Vuoi davvero tagliarci fuori?»
«Voglio smettere di premiare la vostra assenza.» Si appoggiò allo schienale, e per la prima volta dopo anni rimase senza parole.
Tommaso si presentò due giorni dopo, senza avvisare. Non in giacca e cravatta come il fratello, ma con i soliti jeans e la giacca unta di officina. All’inizio non bussò neppure, rimase sul balcone, spostandosi da un piede all’altro come un ragazzino in punizione che aspetta di essere chiamato. Lo guardai per un minuto intero da dietro la tenda prima di aprire.
Sorrise in modo timido. «Ciao, ma’.» Non mi chiamava così da anni.
«Sei qui per parlare o ti serve qualcosa da aggiustare?» chiesi.
Si grattò la nuca. «Forse tutte e due.»
Mi scostai. Entrò e si tolse gli scarponi senza che glielo chiedessi: un dettaglio che Riccardo aveva dimenticato. Si sedette al tavolo della cucina come faceva quando era al verde e cercava di non ammetterlo. Misi l’acqua sul fuoco. Vecchie abitudini. Restammo in silenzio mentre il tè si preparava.
«Sai» disse finalmente, «io del vecchio testamento non sapevo niente. Con gli avvocati parlava sempre Riccardo. Io mi sono fidato.»
Mescolai il tè. «Ti sei sempre fidato di lui.»
«Già. Forse non avrei dovuto.» Lo guardai. Mi parve più stanco di come lo ricordavo, più segnato, nonostante la stessa faccia da eterno ragazzo. Ma avevo imparato a non scambiare la stanchezza per pentimento.
Tirò fuori una busta dalla tasca della giacca e la spinse verso di me. «Non voglio soldi, ma’. Non sono qui per quello. Qui dentro c’è tutto quello che mi hai prestato negli anni. Ogni cifra. Ho fatto un elenco. So che non posso restituirti tutto subito, ma voglio provarci.»
Quello mi colpì. Non tanto il gesto – so bene che alla gente piace sembrare a posto con la coscienza – quanto la precisione. I conti erano giusti. Tutti. Persino i cinquanta euro che gli avevo dato per il carro attrezzi sei anni fa.
Presi il foglio. «Hai tenuto il conto.»
Annui. «Ho sempre avuto in mente di rimettere a posto le cose. Non sapevo solo da dove cominciare.»
«E adesso sì?»
«Credo che vedere Riccardo impazzire per qualcosa che non era suo mi abbia fatto riflettere.»
Lasciai che il silenzio si stendesse tra noi. «Ero arrabbiato» aggiunse. «Alla lettura del testamento. Con te, con Anna, con il mondo. Ma non ero sorpreso. Non del tutto.»
«Perché no?»
«Perché non sei stupida, ma’. Non lo sei mai stata. Forse abbiamo solo fatto finta di niente, contando sul fatto che tu non avresti mai detto una parola.»
Guardai il vapore alzarsi dalla tazza. Non aveva torto. Non è che credessero che non capissi. Credevano che non avrei mai osato parlare.
«Voglio riconquistare la tua fiducia» disse piano.
«Allora non contestare il testamento» risposi. «Non assumere avvocati. Non lasciarti trascinare da Riccardo. Lascia le cose come stanno. Accetta quello che è.»
Annui lentamente. «Posso farlo.»
Non sorrisi. Non mi addolcii. Lo guardai soltanto e dissi: «Bene.» E, per una volta, bastò.
Non mi sorprese quando arrivò la lettera dall’avvocato di Riccardo. Mi sorprese che ci avesse messo tanto. Era in una busta spessa, con il timbro dorato di uno studio del centro che conoscevo solo per fama: costoso, aggressivo, sempre cortese in apparenza. Il tipo di gente che sa sorridere mentre affila il coltello.
La lettera era educata. Usava parole come «spiacevole discrepanza», «necessità di chiarimento» e «soluzione amichevole». Invitava a un incontro «per allineare le rispettive posizioni». Non parlava di soldi, ma non serviva. Alla fine c’era scritto: «Il nostro cliente auspica di evitare un contenzioso formale ma si riserva ogni azione legale qualora il dialogo non conduca a un esito soddisfacente.»
La lessi una volta, poi una seconda.
Poi la misi sul tavolo.
Da qualche parte nel petto, qualcosa di antico si mosse. Non paura, non proprio. Più una memoria. La memoria della ragazza che ero stata, seduta in un ufficio affollato con Enrico, a firmare il primo mutuo mentre un impiegato parlava sopra la mia testa come se non esistessi. Allora non avevo detto una parola. Avevo solo annuito, firmato, sorriso alla fine.
Misi su il tè, mi sedetti in cucina e chiamai Rinaldi. Rispose al secondo squillo.
«Stavo aspettando la sua telefonata» disse. «Ha ricevuto la lettera di suo figlio.»
«Sì.»
«Ho già preparato la risposta.»
«Reggerà?»
«Non ce n’è bisogno. Regge la legge. Quella lettera è solo un modo per metterle pressione. Potrebbero provare a spaventarla, magari depositare qualche atto solo per fare rumore, ma il testamento del 2008 è blindato, signora Maria. Non si muove.»
Gli credetti.
Eppure quella notte non dormii. Rimasi distesa a guardare il soffitto, pensando non ai conti, non ai documenti, ma a Riccardo di sette anni, in piedi sul bordo della piscina, terrorizzato all’idea di tuffarsi. Io in acqua con le braccia aperte, che gli promettevo di prenderlo. E l’ho sempre preso. Sempre.
Non esiste una parola che descriva il dolore di sapere che uno che hai preso al volo cento volte adesso preferirebbe spingerti giù.
La mattina dopo scrissi a Riccardo una lettera. Non tramite avvocati, non per il tribunale. Per lui. Una pagina sola, al computer.
«Riccardo, ho ricevuto la lettera del tuo legale. La tua posizione è chiara. Ecco la mia.
Non ritirerò il testamento.
Non cercherò compromessi.
Non mi siederò davanti a persone che mi vedono solo come un intralcio ai loro piani.
Mi hai già tolto abbastanza. Sto solo scegliendo, per la prima volta, di non darti altro.
Mamma.»
La stampai, la piegai e la misi in una busta senza mittente.
Andai io stessa alla posta e la infilai nella cassetta. Non mi sentivo vincitrice, né vendicata. Mi sentivo come una che ha finalmente appoggiato un pacco troppo pesante, dopo averlo portato troppo lontano.
Quando rientrai, la luce sulla segreteria lampeggiava. Era la voce di Chiara.
«Ciao zia Maria. Spero che questa settimana non sia stata troppo pesante. Ho fatto i quadrotti al limone, quelli con la scorza in più che ti piacciono. Te li porto domani, va bene? Mi manchi.»
Sorrisi. Per la prima volta da giorni, sorrisi davvero. Il mondo si era ristretto, sì, ma non come pensava Riccardo. Non si era chiuso addosso: si era concentrato. Ridotto alle persone che contavano davvero. E in quello spazio più piccolo, finalmente si respirava.
Chiara arrivò il pomeriggio dopo con una scatola di latta e quel suo bussare leggero, come se non fosse mai sicura di essere la benvenuta, nonostante tutti quegli anni. Aprii prima che potesse bussare la seconda volta.
Sorrise appena mi vide. «Sei ancora veloce, vedo.»
Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬






