Al veglia funebre di suo padre, la piccola Sofia, otto anni, non voleva allontanarsi dalla bara. Rimase seduta lì, in silenzio, a guardarlo per ore. Tutti pensarono che fosse sotto shock… finché quella notte, quando la sala si svuotò, salì dentro per stendersi accanto a lui.
Era stata una giornata lunghissima.
Nella casa della nonna, in un paese non lontano da Parma, il salotto era pieno di gente: vicini, parenti, amici, colleghi di Marco Rinaldi, il padre di Sofia. Nell’aria c’era un odore leggero di fiori e di caffè. Si sentivano mormorii, passi, e da qualche parte il pianto sottile di un neonato.
Ma Sofia non faceva caso a nulla.
Da mattina era seduta su una piccola sedia di legno, accanto alla bara. Le sue mani, piccole e ferme, erano appoggiate sul legno lucido. Le gambe penzolavano, senza toccare bene il pavimento.
«Tesoro, vieni a mangiare qualcosa…» le disse piano sua madre, Laura, inginocchiandosi vicino a lei. «Devi mangiare, va bene? Anche solo due bocconi.»
Sofia non rispose. Non la guardò nemmeno. Teneva gli occhi fissi sul volto immobile di suo padre: lo stesso volto che, fino a poco tempo prima, si accendeva di un sorriso quando la rimboccava nel letto.
Laura sospirò, stanca fino alle ossa.
«Forse ha bisogno di tempo,» mormorò la nonna di Sofia, Ada, con la voce bassa. «Lasciamola vivere il dolore a modo suo.»
Passarono le ore. Sofia non si mosse.
La gente entrava e usciva, parlando sottovoce. Qualcuno sussurrò che forse la bambina non capiva davvero cosa fosse la morte. Ma Sofia capiva più di quanto gli adulti immaginassero. Lei c’era stata, quella sera in ospedale, quando il cuore di suo padre si era fermato. Aveva visto i medici correre, parlare in fretta, provare e riprovare. E poi, quel silenzio improvviso che non si dimentica più.
Adesso voleva solo stargli vicino un’ultima volta.
A tarda sera la casa si svuotò quasi del tutto. Rimasero solo pochi parenti, a raccogliere piatti e bicchieri, a sistemare le sedie, a spegnere qualche candela. Laura, con il viso pallido per il pianto, si era assopita in un angolo, seduta, come se il corpo non riuscisse più a reggerla.
Fu allora che Sofia si alzò piano.
I suoi piedini fecero quasi nessun rumore sulle piastrelle. Si avvicinò di nuovo alla bara. Salì sulla sedia, si sporse, esitò un secondo.
Poi, lentamente, sollevò una gamba… e si arrampicò dentro.
La stanza era semibuia, illuminata solo da una lampada. Per un attimo nessuno se ne accorse—finché una zia, girandosi, vide la sedia vuota e poi la bara… e urlò.
«Sofia!»
In un attimo tutti corsero. Laura si svegliò di colpo e si precipitò.
Sofia era sdraiata accanto a suo padre, la testa appoggiata sulla sua spalla, gli occhi chiusi, come se stesse dormendo.
La stanza si riempì di grida e panico. Qualcuno disse di tirarla fuori subito. Un altro chiamò aiuto. Ma in quel momento Laura rimase immobile, tremando, fissando sua figlia dentro la bara, dentro quella quiete che faceva paura.
Le si gelò il sangue—perché, per un secondo, non capì chi sembrasse più sereno: suo marito morto, o sua figlia viva.
«Sofia… amore… svegliati, ti prego!»
La voce di Laura si spezzò mentre allungava le braccia e la prendeva. Sofia respirava. Respirava piano, regolare. Ma non apriva gli occhi. Aveva ancora la guancia appoggiata al petto di suo padre quando Laura la sollevò.
Tutti rimasero fermi, come statue. La zia che aveva urlato piangeva adesso, stringendo un rosario tra le dita. Ada sussurrò, quasi senza voce:
«Non è svenuta… sta riposando. Guardatele il viso.»
Sofia, tra le braccia della madre, era morbida e pesante come un bambino che finalmente cede al sonno. Il respiro era tranquillo. Sembrava che si fosse addormentata accanto a lui perché lì, in quell’ultimo abbraccio, aveva trovato un conforto che nessuno riusciva a darle.
Dopo qualche minuto, la nonna guidò Laura verso il divano.
«Lasciala dormire, tesoro. Non svegliarla. Ha trattenuto tutto per troppo tempo.»
Laura si sedette, tremante, e guardò il volto di Sofia. Nel chiarore della lampada notò qualcosa: la mano della bambina era chiusa a pugno, stretta attorno a qualcosa.
Quando Laura le aprì delicatamente le dita, trattenne il fiato.
Era un foglietto piegato.
Lo aprì con attenzione. La scrittura era quella di Marco. Poche parole, ma pesanti come pietre:
“Se mi succede qualcosa, dì a Sofia che mi dispiace. Volevo restare con voi più a lungo.”
Gli occhi di Laura si riempirono di lacrime nuove. Non sapeva che quel biglietto esistesse. Marco l’aveva scritto settimane prima, e non aveva detto niente a nessuno.
Negli ultimi mesi lavorava senza tregua. Turni lunghissimi. Sedici ore, a volte di più. Cercava di salvare la piccola attività di famiglia, che stava affondando nei debiti. Non voleva chiedere aiuto. Non voleva far preoccupare nessuno. Aveva spinto il corpo oltre il limite, finché il cuore non aveva ceduto.
E Laura capì, in quel preciso istante, perché Sofia non aveva pianto.
La bambina aveva sentito una discussione, la settimana prima. Laura, stremata, aveva accusato Marco di pensare più al lavoro che alla famiglia. Parole dette con rabbia e paura. Parole che, in una casa, restano nell’aria anche quando credi che i bambini non ascoltino.
E adesso Sofia doveva aver creduto che suo padre fosse morto anche per colpa di quella lite.
Laura strinse il biglietto al petto. Sentì una fitta dentro, più profonda di qualsiasi cosa avesse mai provato. Il senso di colpa che pensava di aver sepolto la travolse come un’onda.
Sofia si mosse piano tra le sue braccia. Le palpebre tremolarono. Poi si aprirono.
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