Alle dieci in punto, la linea era occupata: poi arrivò la sua voce

Il giorno dopo quella telefonata, mi svegliai prima della sveglia.

Non per forza di volontà. Per paura.

Era come se, durante la notte, qualcuno avesse rimesso in moto un ingranaggio fermo da anni. E ora quel meccanismo — fragile, arrugginito — poteva rompersi da un momento all’altro. Mi alzai con calma, ma dentro avevo il cuore che correva.

Il vecchio telefono fisso stava lì, sulla mensolina, identico a ieri. Beige, pesante, con i tasti consumati. Eppure sembrava diverso. Come se avesse preso fiato.

Mi preparai il caffè, ma ne bevvi metà. Il resto rimase freddo nella tazzina.

Continuavo a guardare l’orologio.

9:57.

9:58.

9:59.

Mi sedetti sulla poltrona senza appoggiarmi davvero. Con la schiena dritta, come un soldato che aspetta l’appello. Le dita sul bracciolo. Il telefono davanti, immobile, quasi innocente.

10:00.

E niente.

Nessun DRIIIN.

Il silenzio mi colpì come uno schiaffo. Non era solo assenza di suono: era la vecchia vita che tornava, la vita di prima, quella in cui l’aria è piena di niente e il niente pesa più del piombo.

Aspettai dieci secondi. Poi venti. Poi trenta.

Mi dissi: forse ha dimenticato.

Mi dissi: è giovane, ha la sua vita.

Mi dissi: Vittorio, non ricominciare a fare il vecchio disperato.

Ma il corpo non ascolta la dignità, quando ha fame di un gesto.

Allungai la mano verso la cornetta.

La sfiorai soltanto.

E proprio in quell’istante…

DRIIIN!

Lo squillo mi attraversò il petto. Mi venne da piangere e ridere nello stesso momento, come un bambino che si è perso e poi vede sua madre tra la folla.

Afferrai la cornetta senza respirare.

«Pronto?»

«Nonno!»

La voce di Elia arrivò più forte del solito, come se stesse correndo. «Scusa, scusa… ero in autobus e non prendeva. Ho guardato l’ora e ho… ho praticamente urlato al conducente che dovevo fare una cosa importante.»

Restai zitto un attimo. Mi si sciolse qualcosa dentro.

«Importante…» ripetei, come se la parola non fosse più abituata alla mia bocca.

«Sì.» Elia inspirò. «Io… non volevo che tu restassi lì a fissare il telefono come ieri. Cioè… come sempre. Non volevo che ti sentissi… come mi hai detto.»

Non mi aveva preso per matto.

Non era scappato per schifo o per imbarazzo.

Si era portato via la mia storia, e se l’era messa addosso.

«Va bene, ragazzo mio.» La mia voce tremò. «Va bene così.»

«Domani sarò puntuale. Promesso.»

Quando riagganciai, rimasi con la cornetta in mano un secondo di troppo, come se quel calore mi servisse per convincermi che era reale. Poi la posai, piano, come si posa un oggetto fragile su cui è tornata la vita.

Quella sera non cenai da solo.

Lo sentii prima ancora di vedere la luce sotto la porta. Un rumore di chiavi, passi rapidi, il fruscio della busta della spesa.

Elia entrò con due sacchetti e un’aria diversa. Non era solo “il nipote che passa”. Sembrava… presente. Come se avesse deciso di restare in un posto anche se quel posto è fatto di tristezza.

«Ho preso il pane.» Alzò una pagnotta come un trofeo. «E ho trovato dei pomodori che… non so… mi sembravano quelli che avrebbe scelto la nonna.»

Mi colpì quel “avrebbe”. Non “sceglierebbe”.

Non la faceva finta di viva. Le dava rispetto da morta.

«Siediti» dissi, e questa volta non fu un ordine, ma un invito.

Mentre apparecchiava, guardai le sue mani. Non avevo mai notato quanto somigliassero a quelle di Caterina: non la forma, ma l’energia. Il modo di fare le cose come se fossero importanti.

Mangiammo lentamente. Nessun televisore acceso. Nessuna fretta.

A un certo punto Elia appoggiò la forchetta. Aveva gli occhi lucidi, ma faceva il duro, come i giovani che credono di dover trattenere tutto.

«Nonno…» disse. «Io ieri… quando sono uscito… non era perché non capivo. Era perché… ho capito troppo.»

Mi si strinse lo stomaco.

«Sono tornato a casa e ho pensato: io ho mille chat, mille notifiche, mille cose… e poi… e poi il nonno chiama il suo stesso numero per sentire un “occupato”.»

Scosse la testa, come se si vergognasse di una colpa che non sapeva nominare.

«Mi sono sentito… inutile. E mi sono arrabbiato. Con me.»

Lo guardai senza parlare. Non lo interrompei. Quella era una confessione, e le confessioni non si tagliano.

«Poi ho pensato una cosa.» Elia si raddrizzò sulla sedia. «Che non posso riportarti la nonna. Ma posso almeno… stare al posto del silenzio. Un pezzetto. Ogni giorno. Alle dieci.»

Sentii un nodo, caldo, salirimi fino agli occhi.

«E se un giorno non posso chiamarti…» aggiunse, più piano. «Non voglio che tu aspetti invano.»

Era lì, la paura. La mia.

La mia vergogna. Il mio terrore di tornare da solo.

«Che vuoi dire?» chiesi.

Elia infilò la mano in tasca, tirò fuori un foglietto piegato male, come se l’avesse scritto di corsa. Lo appoggiò sul tavolo.

«Ho scritto… dei numeri.» disse. «Delle persone. La zia, il cugino, la signora Ada del piano di sotto, anche Paolo… il tuo amico del circolo… quello che gioca a carte. Ho parlato con loro. Ho detto… che se io un giorno sono bloccato, qualcuno ti chiama. Alle dieci.»

Sgranai gli occhi.

«Hai… parlato con la signora Ada?»

Quella donna che da dieci anni mi salutava solo con un cenno, come se la vita fosse un corridoio in cui passare veloci.

Elia fece un mezzo sorriso.

«È più dura di quello che sembra. Ma quando le ho detto che tu chiami la tua linea ogni mattina… ha… ha fatto una faccia. E poi ha detto: “Ma allora è scemo.”»

Si fermò, preoccupato di ferirmi. «Però poi ha aggiunto: “Scemo no. Solo… solo tanto solo.” E mi ha dato il suo numero. E mi ha detto che domani… domani ti chiama lei. Perché lei domani va a fare delle analisi e… e comunque si sveglia presto.»

Mi uscì una risata strana, rotta.

«Caterina l’avrebbe adorata» mormorai, asciugandomi una lacrima con il dorso della mano. «Si sarebbero insultate e poi avrebbero condiviso il caffè.»

Elia respirò, come sollevato.

«Allora…» disse. «Non sei più da solo alle dieci. Non perché dobbiamo riempirti il tempo come si fa con un vecchio… ma perché… perché quel momento era vostro. E io voglio che resti un momento d’amore. Anche se cambia forma.»

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