Rimasi zitto.
Perché se avessi parlato, sarei crollato sul tavolo.
Quella notte dormii meglio. Ma al mattino, la paura tornò. Non sparisce in un giorno. La solitudine non è un interruttore: è una ruggine.
9:59.
Mi sedetti in poltrona. Lo feci con meno vergogna e più tremore.
Come chi ha paura di sperare.
10:00.
DRIIIN!
Sussultai.
«Pronto?»
«Vittorio?»
Una voce femminile, secca, senza zucchero. «Sono Ada. Quella del piano di sotto. Senti… io non sono brava con ste cose sentimentali. Però… Elia mi ha detto che alle dieci si chiama. Quindi eccomi. Hai mangiato?»
Mi venne da ridere e piangere insieme.
«Sì, signora Ada» risposi con la voce strozzata. «Ho mangiato.»
«Bene. E le medicine?»
«Prese.»
«Perfetto.» Una pausa. Poi, quasi sottovoce: «E non fare lo scemo col telefono. Se vuoi parlare… bussi. Ho il caffè. Ma non farmi perdere tempo, eh.»
Riagganciai e rimasi fermo.
Il corridoio non sembrava più un corridoio. Sembrava una strada.
Il giorno dopo chiamò mia figlia. E quando sentii la sua voce, mi vergognai per tutti i giorni in cui avevo finto di “stare bene” per non disturbare.
«Papà…» disse. «Elia mi ha spiegato. Io… io non sapevo.»
«Non volevo essere un peso» risposi.
«Non sei un peso» disse lei, e la sua voce tremò come la mia. «Sei… sei mio padre.»
Poi, un altro giorno, fu Paolo. Fece una battuta stupida, come sempre, e quella stupidità mi salvò. Perché la risata, quando arriva dopo anni, fa male come una ferita che si riapre… ma è un dolore buono.
E io cominciai a capire che le dieci non erano solo un’ora. Erano un ponte.
Un ponte tra me e Caterina, sì.
Ma anche tra me e il mondo, che avevo smesso di attraversare.
Una sera, mentre Elia mi aiutava a sistemare dei vecchi libri, trovammo una scatola in fondo all’armadio. Non era nascosta. Era solo… dimenticata. Come certe parti di noi che chiudiamo perché non sappiamo dove metterle.
Dentro c’erano cose piccole: fotografie, una spilla, un fazzoletto ricamato. E un quaderno sottile, con la copertina blu.
Elia lo aprì piano.
Era la grafia di Caterina.
Non un diario romantico. Niente poesie. Caterina scriveva come viveva: chiaro, diretto, con amore senza spettacolo.
In mezzo alle pagine, trovai una riga che mi trafisse:
“Se un giorno io non ci sarò più, Vittorio farà finta di essere forte. Ma alle dieci avrà bisogno di qualcuno. Non lasciatelo solo in quell’ora.”
Mi mancò l’aria.
Elia mi guardò, immobile, come se avesse paura che quel foglio potesse spezzarmi.
«Lei… lo sapeva» sussurrai.
«Sì.» Elia deglutì. «E… forse… ti stava già preparando una rete. Solo che… nessuno l’ha vista. Fino ad ora.»
Chiusi gli occhi. Vidi Caterina con il grembiule, le mani sporche di farina, il telefono tra spalla e orecchio mentre mi rimproverava di bere poco. La vidi ridere, poi sospirare, poi scrivere quella frase senza fare tragedie. Come se l’amore, per lei, fosse anche organizzare la sopravvivenza di chi resta.
Quella notte sognai il segnale di occupato.
Ma non era più un “tu-tu” disperato.
Era un “tu-tu” che somigliava a un invito: ci sei?
Il giorno dell’anniversario della sua morte arrivò come arriva sempre: senza bussare.
Mi svegliai con un peso sul petto che non era solo tristezza. Era una specie di rispetto, un silenzio sacro.
Elia venne presto. Non disse “oggi sarà dura”. Non disse “coraggio”. Fece solo una cosa: mise il cappotto.
«Andiamo a fare due passi» disse.
Fuori faceva freddo. Il cielo era grigio come quel primo giorno, ma a me sembrò diverso. Non più una coperta pesante. Più un lenzuolo leggero.
Arrivammo al cimitero con i fiori in mano. Non fiori enormi, non scenate. Solo un mazzo semplice, come lei.
Mi fermai davanti alla sua tomba.
Elia non parlò. Rimase un passo indietro, come si fa con le cose importanti.
Guardai il nome inciso e, per la prima volta dopo anni, non pensai “sei andata via”.
Pensai: “sei stata.”
Alle 10:00 il telefono, naturalmente, non squillò. Eravamo lì.
Ma Elia guardò l’ora e fece un gesto piccolo, quasi buffo.
«Nonno…» disse. «Oggi… oggi la chiamata la facciamo noi.»
Tirò fuori il cellulare. Non per distrarmi, non per fotografare. Solo per usare quella tecnologia come un ponte, non come un rumore.
Compose un numero.
Il mio.
E, per un istante, ebbi paura. Una paura stupida: che squillasse e nessuno rispondesse. Che l’appartamento vuoto restasse vuoto anche nella mia testa.
Poi ricordai.
Oggi non ero solo.
Sentii il telefono vibrare in tasca — perché Elia, nei giorni precedenti, mi aveva convinto a portare con me un apparecchio semplice, senza troppe cose. “Solo per le chiamate,” aveva detto.
Lo guardai come si guarda un oggetto magico.
E risposi.
«Pronto?» dissi, con la voce rotta.
Elia sorrise. Aveva gli occhi lucidi.
«Ciao, Nonno» disse, piano. «Sono le dieci.»
Mi voltai verso la tomba di Caterina. Il vento muoveva appena i fiori.
«Sì» sussurrai. «Lo so.»
E dentro quel “lo so” c’era tutto: la sua assenza, la sua presenza, la mia paura, e il fatto che — nonostante tutto — c’era ancora una voce.
Riagganciai e rimasi un attimo immobile. Poi posai la mano sulla pietra fredda.
«Hai sentito?» mormorai. «Non è più occupato.»
Elia mi mise una mano sulla spalla. Non forte. Non come a reggermi. Solo come a dire: ci sono.
Mentre tornavamo a casa, mi accorsi di una cosa semplice, quasi banale: camminavo più dritto. Non perché il dolore fosse sparito. Ma perché non dovevo più portarlo da solo.
Quella sera, alle 21, mi ritrovai davanti al telefono fisso. Lo guardai.
Per anni era stato un altare. Un rituale. Una bugia necessaria.
Allungai la mano.
Alzai la cornetta.
E invece di comporre il mio numero…
La rimisi giù.
Non per coraggio. Non per “guarigione”.
Solo perché, ormai, alle dieci non dovevo più inventarmi una voce dall’altra parte.
L’amore non era tornato indietro.
Aveva solo trovato un’altra strada per arrivare.
E io, vecchio Vittorio, capii che sopravvivere non significa dimenticare.
Significa imparare a rispondere.






