Centinaia di motociclisti volontari al funerale del bambino rifiutato da tutti per gli errori del padre

Centinaia di volontari in moto seppellirono il bambino che nessuno voleva
solo perché suo padre era in carcere per omicidio.


Il direttore dell’agenzia funebre ci aveva chiamati dopo essere rimasto due ore da solo nella cappella, seduto davanti a una bara bianca troppo piccola, aspettando che qualcuno – chiunque – venisse a salutare per l’ultima volta il piccolo Tommaso Lodi.

Il bambino era morto di leucemia dopo tre anni di cure, flebo e ospedali.
L’unica persona che lo andava sempre a trovare era la nonna. Il giorno prima del funerale aveva avuto un infarto ed era finita in terapia intensiva.

I servizi sociali avevano detto che avevano già fatto il loro dovere.
La famiglia affidataria aveva risposto che non era più responsabilità loro.
La parrocchia, spaventata dal clamore, aveva chiesto una cerimonia “in forma strettamente privata”, quasi vergognandosi di essere associata al figlio di un uomo condannato per omicidio.

Così quel bambino innocente, che negli ultimi mesi continuava a chiedere se il suo papà lo amasse ancora, stava per essere sepolto da solo, in un campo comune dietro al cimitero, con solo un numero di ferro al posto della lapide.

È stato allora che Marco “il Capo”, presidente dell’associazione di volontari motociclisti “Fratelli della Strada”, pronunciò la frase che nessuno di noi ha più dimenticato:

«Nessun bambino va sotto terra da solo. Non mi importa chi sia suo padre.»

Quello che nessuno sapeva era che il padre di Tommaso, chiuso in una cella di massima sicurezza, aveva appena ricevuto la notizia della morte di suo figlio e aveva deciso di farla finita quella stessa notte.

Le guardie lo tenevano sotto osservazione, ma sapevamo tutti come a volte finiscono quelle storie.
Quello che stava per succedere non avrebbe solo dato a un bambino morto il saluto che meritava.
Avrebbe salvato anche un uomo convinto di non avere più nessun motivo per respirare.


Stavo bevendo il mio caffè del mattino nella sede dell’associazione quando il telefono ha squillato.
Sul display c’era scritto “Onoranze Funebri Lilium”. Il signor Paolo Fabbri, il direttore, aveva la voce rotta.

«Renzo, ho bisogno di aiuto» disse. «Ho una situazione che non riesco a gestire da solo.»

Paolo aveva seppellito mia moglie cinque anni prima. Le aveva restituito dignità quando la malattia l’aveva ridotta a pelle e ossa. Glielo dovevo.

«Che succede?» chiesi.

«C’è un bambino qui. Dieci anni. È morto ieri in ospedale. Nessuno è venuto. E… nessuno verrà.»

«È un bambino in affido?» domandai, già con la gola stretta.

«Peggio. Suo padre è Marco Lodi.»

Quel nome lo conosceva tutta la città. Quattro anni prima, una lite per droga finita a colpi di coltello e di pistola in un garage di periferia. Tre morti. Processo in televisione. Condanna all’ergastolo. Fine della storia, almeno per i giornali.

«Il bambino stava morendo di leucemia da tre anni» continuò Paolo. «La nonna era tutto quello che aveva e ieri si è sentita male. È in terapia intensiva, forse non ce la farà. Lo Stato dice: va sepolto. La famiglia affidataria si è tirata indietro. Persino alcuni dei miei dipendenti non vogliono toccare la bara. Dicono che porti sfortuna seppellire il figlio di un assassino.»

Fece un respiro spezzato.

«Avrei bisogno almeno di quattro persone per portare la bara. Ma soprattutto… qualcuno che sia presente. È solo un bambino, Renzo. Non ha scelto lui suo padre.»

Mi sono alzato in piedi. La decisione l’avevo già presa.

«Dammi due ore» dissi.

«Renzo, davvero… bastano quattro persone…»

«Ne avrai di più.»

Riattaccai e suonai il vecchio campanello di metallo che usiamo quando c’è un’emergenza. Nel giro di pochi minuti la sala principale si riempì. Venticinque motociclisti volontari, quasi tutti ex vigili del fuoco o ex soccorritori, si misero in cerchio.

«Ragazzi» dissi. «C’è un bambino di dieci anni che sta per essere sepolto da solo perché suo padre è in carcere per omicidio. Il piccolo è morto di tumore. Nessuno lo reclama. Nessuno vuole piangere per lui.»

La stanza diventò silenziosa.

«Io oggi vado al suo funerale» continuai. «Non è un’attività ufficiale dell’associazione. Non chiedo a nessuno di venire. Ma se qualcuno di voi crede che nessun bambino debba entrare in terra da solo… mi aspetti davanti all’agenzia funebre tra novanta minuti.»

Fu Gino, che chiamiamo “Nonno”, a parlare per primo. «Mio nipote ha dieci anni» disse piano.

«Pure il mio» mormorò Carlo.

«Mio figlio avrebbe avuto dieci anni adesso» sussurrò Luca. «Se l’incidente…»

Non aveva bisogno di finire la frase. Tutti sapevamo.

Marco, il Capo, si alzò in piedi.

«Chiama gli altri gruppi» disse. «Chiama il gruppo degli ex vigili, i Motori del Soccorso, tutti. Questa non è una questione di colori o di stemmi. È una questione di umanità.»

Le telefonate partirono. Gruppi di motociclisti solidali. Associazioni di ex pompieri. Gruppi di volontari che usavano la moto per raccolte fondi e cortei per beneficenza.
Gente che normalmente discuteva per l’organizzazione degli eventi, per i percorsi, per l’ordine delle moto nei cortei.

Ma quando sentirono parlare di Tommaso Lodi, tutti dissero la stessa frase:
«Arriviamo.»


Andai per primo all’agenzia funebre per parlare con Paolo.
Era fuori dalla piccola cappella, in giacca nera, con lo sguardo perso.

«Renzo, io… non volevo metterti in difficoltà…» cominciò.

Il rombo dei motori lo interruppe.
Prima arrivarono i Fratelli della Strada, quasi quaranta moto.
Poi il gruppo degli ex vigili del fuoco, in venti.
Poi altri: associazioni di volontari, piccoli gruppi di appassionati, persone singole che avevano letto il messaggio inoltrato mille volte sui telefoni.

In meno di due ore il parcheggio davanti all’agenzia, la strada e persino la piazzetta accanto erano pieni di moto e scooter. Alcuni erano venuti perfino con piccoli furgoni decorati con i loghi delle loro associazioni.

Gli occhi di Paolo si fecero lucidi. «Saranno almeno trecento…» sussurrò.

«Trecento e cinque» lo corregse il Capo. «Abbiamo contato lungo la strada.»

Paolo ci accompagnò dentro. Nella cappellina, illuminata da due candele, c’era una piccola bara bianca. Accanto, un solo mazzo di fiori presi al supermercato, con ancora il prezzo attaccato.

«È tutto qui?» chiese Miriam, una delle poche donne del nostro gruppo.

«I fiori li ha mandati l’ospedale» ammise Paolo. «Procedura standard.»

«Al diavolo la procedura standard» borbottò qualcuno dietro di me.

La cappella cominciò a riempirsi. Uomini e donne con giacche di pelle consumate, vecchie uniformi di servizio sotto i gilet dell’associazione, visi segnati dal lavoro e dalla vita. Qualcuno aveva già le lacrime agli occhi.

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