Centinaia di motociclisti volontari al funerale del bambino rifiutato da tutti per gli errori del padre

Una mano posò un piccolo peluche sulla bara.
Un altro mise un modellino di motocicletta.
Alla fine, la bara fu circondata da piccoli doni: macchinine, dinosauri di plastica, fiori, un gilet in miniatura con sopra, cucito a mano, un patch: “Piccolo Fratello della Strada”.

Fu Sandro, un ex vigile del fuoco che tutti chiamavano “Cenere” perché aveva passato la vita tra roghi e fumo, a spezzare definitivamente il silenzio. Si avvicinò alla bara, appoggiò una fotografia accanto e disse:

«Questo era mio figlio, Matteo. Aveva la stessa età quando la leucemia se l’è portato via. Nemmeno io sono riuscito a salvarlo, Tommaso. Ma tu oggi non sei solo. Se lassù esiste qualcosa, Matteo ti farà vedere dove si gioca.»

Uno alla volta, i volontari presero la parola.
Non parlavano di Tommaso – nessuno di noi lo conosceva davvero – ma dei figli che avevano perso, dei bambini che avevano visto in ambulanza o al pronto soccorso, dell’ingiustizia di un bambino che muore portando sulle spalle i peccati del padre.

Poi il telefono di Paolo squillò.

Si allontanò un attimo, rispose, e quando tornò era pallido.

«È il carcere» disse piano. «Marco Lodi… sa tutto. Sa della morte. Sa del funerale. Lo tengono sotto osservazione perché ha parlato di farla finita. Ha chiesto se… se qualcuno è venuto per suo figlio.»

La cappella divenne di colpo muta.

Il Capo si alzò. «Metti il viva voce» disse.

Paolo esitò un secondo, poi compose il numero che gli avevano dato. Dopo qualche tono, una voce maschile, spezzata, riempì la stanza.

«Pronto? C’è qualcuno? Vi prego… qualcuno è con il mio bambino?»

«Marco Lodi» disse il Capo con tono fermo. «Qui è Marco Rizzi, presidente dei Fratelli della Strada. Sono qui con più di trecento volontari, motociclisti, ex soccorritori, da tutta la regione. Siamo tutti qui per tuo figlio.»

Silenzio. Poi un singhiozzo.
Singhiozzi profondi, da uomo che ha perso tutto.

«Lui… lui amava le moto» balbettò Marco. «Prima che combinassi quello che ho combinato. Gli avevo comprato una moto giocattolo. Dormiva con quella in mano. Diceva che da grande avrebbe fatto il pompiere in moto, come quelli dei cortei.»

«Oggi farà il suo corteo» disse il Capo. «Con noi. Ogni volta che faremo una marcia per beneficenza o una scorta solidale, Tommaso sarà con noi. Questa è una promessa.»

«Non ho potuto dirgli addio» mormorò Marco. «Non ho potuto tenergli la mano. Non ho potuto dirgli che lo amo.»

«Allora diglielo adesso» intervenni io, avvicinandomi al telefono. «Noi restiamo qui. Faremo finta che ti senta con le nostre orecchie.»

Per i cinque minuti successivi, la cappella si riempì delle parole di un padre che diceva addio.
Marco raccontò i primi passi di Tommaso, la sua fissazione per i dinosauri, come aveva affrontato senza lamentarsi punture, chemio, nausee. Chiese perdono per ogni compleanno passato dietro le sbarre, per ogni Natale mancato, per ogni telefonata troppo breve.

«So che non merito il perdono» concluse. «So che qui è il mio posto. Ma lui… lui era buono. Pulito. Meritava un padre migliore di me.»

«Meritava un padre che lo amasse» disse piano il Capo. «E quello ce l’aveva. Un padre sbagliato, un padre pieno di errori, ma un padre che lo amava. Questo conta.»

«Dovrei morire qui, da solo» sussurrò Marco. «Questa sarebbe la mia punizione.»

«No» intervenne Gino, con quella sua voce ruvida. «Tu adesso vivi. Vivi sapendo che trecento sconosciuti hanno riempito una cappella per tuo figlio. Vivi sapendo che è esistito, che ha lasciato un segno. Se ti arrendi adesso, sputi su tutto questo.»

«Ma a che serve restare qui dentro? Lui non c’è più» mormorò Marco.

Fu allora che parlò Cenere.

«Serve perché ci sono altri padri qui dentro che stanno facendo i tuoi stessi errori» disse. «Tu resti vivo e racconti loro cosa hai perso. Spieghi cosa costa una serata sbagliata, una pistola, una scelta codarda. Magari così un altro bambino non dovrà ascoltare certe notizie da una suora d’ospedale.»

Dall’altra parte della linea ci fu un silenzio così lungo che pensammo avesse chiuso. Poi la sua voce tornò, più bassa.

«Lo… lo seppellirete come si deve? Vi prego» chiese.

«Fratello» dissi io, con la gola stretta, «tuo figlio avrà il funerale di un guerriero. Te lo giuro.»


Quando la chiamata finì, sei volontari di sei gruppi diversi sollevarono la piccola bara sulle spalle.
Non c’era bisogno di dirlo: tutti avevamo tolto i caschi, e molti tenevano in mano un fazzoletto.

Dietro, più di trecento moto si misero in fila indiana. Avanzavamo piano, il rombo dei motori tenuto appena sopra il minimo, tanto da far vibrare l’asfalto come un tuono lontano.

La gente si fermava sui marciapiedi, apriva le finestre, usciva dai bar con il caffè ancora in mano. Nessuno capiva bene cosa stesse succedendo, ma l’aria aveva quel silenzio particolare delle cose importanti.

Al cimitero, invece del prete della parrocchia, parlò un nostro amico: don Tiziano, un cappellano che da anni segue i volontari. Non parlò di diritto o di peccato, non citò il passato del padre.

Disse solo: «Tommaso Lodi è stato amato. Da sua nonna. Da suo padre, nonostante i suoi errori. E oggi da ogni persona presente qui. L’amore non cancella le colpe, ma le supera. Va oltre le mura, oltre le condanne, oltre la morte.»

Quando la bara cominciò a scendere nella fossa, il Capo alzò il braccio.
Tutti capimmo.

Trecento motori salirono di giri nello stesso istante.
Un boato unico, un’onda di rumore che, giuro, secondo me arrivò fino al carcere a più di dieci chilometri di distanza.

L’ultimo giro di Tommaso.
Il primo che non doveva più fare da solo.


Ma la storia non finisce lì.

Due settimane dopo ricevetti una telefonata dal cappellano del carcere.

«Renzo» disse. «Marco Lodi ha iniziato qualcosa. Lo chiama “Lettere ai figli”.»

Mi spiegò che Marco aveva cominciato ad aiutare gli altri detenuti a scrivere lettere ai propri bambini.
Li spingeva a chiamarli, a non sparire dalle loro vite, anche se dietro le sbarre.
A chiedere scusa prima che fosse troppo tardi.

In sei mesi, quell’idea si era allargata ad altre carceri. Decine, poi centinaia di lettere erano uscite da quei muri spessi, dirette a piccoli che aspettavano, da qualche parte, una parola qualsiasi dai loro padri.

La nonna di Tommaso si riprese.
Non completamente – il cuore non torna mai quello di prima – ma abbastanza da stare in piedi.

Il giorno che venne da noi per la prima volta, si presentò con una busta di dolci fatti in casa e uno sguardo timido.

Adesso viaggia spesso sul sellino dietro la moto del Capo.
Porta un gilet tutto suo, con una scritta ricamata a mano: “Nonna di Tommaso”.
A ogni incontro mette sulla tavola una teglia di biscotti o una torta, come se avesse trovato cento nipoti nuovi da sfamare.

La tomba di Tommaso non è mai vuota.
C’è sempre un fiore, un biglietto, un piccolo dinosauro di plastica, una moto giocattolo.
Il custode del cimitero dice che è il punto più visitato di tutto il camposanto.

Qualche mese fa, a un distributore, una signora mi fermò.

«Lei è uno di quelli… delle moto, vero?» chiese, guardando il mio gilet.

Annuii.

«Mio figlio era nella stessa casa-famiglia di Tommaso» spiegò. «Erano amici. Io avevo paura a venire al funerale. Avevo paura dei commenti, di quello che avrebbe detto la gente su suo padre. Ma poi abbiamo saputo cosa avete fatto.»

Teneva qualcosa stretto in mano.
Un piccolo giocattolo, consumato ai bordi.

«Mio figlio ha conservato questo» disse. «Era di Tommaso. Stava sul comodino vicino al suo letto. Dice che vorrebbe che tornasse da lui, adesso.»

Me lo porse. Era una piccola moto di plastica, con la vernice rovinata.
Una cosa da pochi euro.
Ma pesava come se fosse d’oro.

Oggi quella moto è appoggiata su una mensola nella nostra sede, sotto una foto del corteo funebre.
Sotto, una targa di legno con poche parole:

«Tommaso Lodi – Per sempre dieci anni, per sempre in viaggio, per sempre amato.»

Marco è ancora in carcere.
Ci resterà fino alla fine.
Ma è vivo.
E, a modo suo, sta aggiustando quello che può. Ha aiutato più di duecento detenuti a riallacciare un filo con i propri figli.

Ogni mese ci manda una lettera.
Ringrazia per aver salvato due vite quel giorno: la memoria di suo figlio e la sua anima.

E ogni volta che saliamo in moto per un corteo solidale, per accompagnare una raccolta fondi in un paese terremotato o per scortare il feretro di qualcuno che non ha nessuno, giuro che lo sento.

Un bambino di dieci anni che non ha mai potuto guidare davvero, ma che adesso viaggia con noi.
Sul serbatoio, sul vento, nel rombo dei motori.

Perché questo è quello che facciamo.
Ci presentiamo per gli invisibili.
Stiamo accanto agli abbandonati.
Portiamo noi il peso di chi non ha più nessuno che lo porti.

Anche quando si tratta solo di una piccola bara bianca e di un bambino la cui unica colpa è stata quella di nascere dal padre sbagliato.

Soprattutto allora.

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