Cinquantadue lettere e un cane: il viaggio inaspettato per ritrovare me stesso tra le colline

Mio padre era morto da tre settimane quando trovai il manuale di istruzioni che aveva lasciato per il suo fantasma. Solo che non era indirizzato a me: era indirizzato al cane.

Ero in piedi nel mezzo della sua officina polverosa, in un piccolo borgo sulle colline umbre. Davanti a me c’era una vecchia cassetta di legno con la scritta a pennarello: “IL CALENDARIO DI FIDO”.

Dentro c’erano cinquantadue buste sigillate, numerate da 1 a 52. Accanto alla cassetta c’era Fido, un Golden Retriever di quaranta chili con gli occhi color nocciola e una coda che non scodinzolava dal giorno del funerale.

Avevo ventotto anni, lavoravo nella finanza e vivevo in un grattacielo a Milano. La mia vita era ottimizzata al secondo: spesa con consegna a domicilio, cuffie per isolarmi dal rumore del tram e zero interazioni umane non necessarie. Mio padre, Pietro, era l’opposto. Era un meccanico di paese che non riusciva a comprare il pane senza fare una chiacchierata di venti minuti con la fornaia.

Quando un infarto se l’è portato via all’improvviso, mi ha lasciato la sua casa in pietra, il suo vecchio furgone e Fido. Avevo programmato di vendere la casa, tenere il furgone e… beh, non sapevo cosa fare del cane. Nel mio condominio a Milano gli animali di grossa taglia non erano nemmeno ammessi.

Presi la busta n. 1. Era pesante. Sul davanti, nella calligrafia disordinata e macchiata di grasso di papà, c’era scritto: “Apri subito. Non pensarci troppo, Dario.”

La strappai. Dentro c’erano venti euro e una vecchia foto istantanea di Fido da cucciolo che mordicchiava uno scarpone da lavoro. Sul retro della foto, papà aveva scritto:

“Dario, prendi il furgone. Metti Fido sul sedile del passeggero. Guida fino al chiosco della porchetta di Gigi, sulla Statale. Compra due panini completi. Uno per te, uno per il cane (ma attenzione: dagli solo la carne magra interna, niente crosta e niente spezie!).

Siediti al tavolo di legno sotto i pini. Non guardare il telefono. Guarda il tramonto sulle colline. A Fido piace l’odore del vento lì.”

Guardai il cane. Fido mi guardò, emettendo un sospiro pesante e malinconico che sembrava l’eco della mia stessa stanchezza.

“Va bene,” mormorai. “Vada per la porchetta.”

Guidammo fino da Gigi. Mi sentivo ridicolo. Ero arrabbiato. Sentivo un nodo alla gola che mi impediva quasi di respirare. Ma comprai i panini. Mi sedetti su quella panchina umida. Pulii un pezzo di carne per Fido, come promesso.

Per la prima volta dopo settimane, le sue orecchie si drizzarono. Ingoiò la carne, mi leccò le dita untuose e poi appoggiò la sua testa pesante sul mio ginocchio.

Non guardai il telefono. Guardai il sole scendere dietro i cipressi, dipingendo il cielo di viola e arancione. Per dieci minuti, il silenzio non fu solitario. Fu solo… pace.

Quella era la Settimana 1.

Alla Settimana 8, “Il Calendario di Fido” era diventato l’unica cosa che mi teneva ancorato alla realtà. Mi ero preso un’aspettativa dal lavoro. Non riuscivo ancora a tornare nel grigio di Milano. Le buste cambiavano. Non si trattava più solo di dare da mangiare al cane.

Busta n. 12:

“Vai al consorzio agrario. Compra un sacchetto di mangime per uccelli. Fido tira sempre il guinzaglio vicino alla panchina dei giardini pubblici perché vuole rincorrere i piccioni. Non lasciarlo fare, sennò i vigili si arrabbiano. Siediti. Riempi la mangiatoia. Un anziano signore, il signor Elio, si siede lì ogni martedì alle 10. Chiedigli dei suoi nipoti che studiano a Bologna. P.S. Fido adora quando Elio gli gratta dietro le orecchie.”

Andai. Mi sentivo impacciato. Il signor Elio era lì, con il suo cappotto di lana un po’ logoro, l’aria fragile e sola. Fido non tirò; trotterellò dritto verso il vecchio e gli spinse il muso contro la mano. Il viso di Elio si aprì in un sorriso che sembrava doloroso, come se non usasse quei muscoli da tempo.

“Tu sei il figlio di Pietro,” disse Elio grattando Fido. “Questo cane ha un’anima migliore di metà delle persone di questo paese.”

Parlammo per un’ora. Scoprii che sua nipote studiava economia, proprio come avevo fatto io. Me ne andai sentendomi più leggero.

La busta n. 20 arrivò un martedì piovoso di novembre.

“Vai sotto il cavalcavia della ferrovia, vicino alla vecchia stazione. C’è un uomo che vive lì in una roulotte scassata, si chiama Gianni. Raccoglie ferrovecchio. Ha un bastardino che si chiama Fido. Fido e Fido sono amici. Dai questi 30 euro a Gianni, ma digli che è per comprare le crocchette per Fido, altrimenti non li accetterà per orgoglio. Stringigli la mano, Dario. Guardalo negli occhi.”

Questa mi terrorizzava. Il mio mondo erano fogli di calcolo e riunioni virtuali, non i margini della società. Ma Fido conosceva la strada. Mi tirò avanti, scodinzolando con una ferocia che non avevo ancora visto.

Quando arrivammo, un uomo con una giacca militare consunta alzò lo sguardo. Prima che potessi parlare, Fido lo assalì di baci.

“Fido!” rise l’uomo con voce roca. “Dov’è Pietro?”

Il silenzio che seguì fu pesante. Glielo dissi. Gianni si accasciò contro la parete della roulotte, nascondendo il viso nelle mani sporche di grasso. Fido si sedette accanto a lui, appoggiando tutto il suo peso contro lo sconosciuto, offrendo l’unico conforto che aveva: la sua presenza.

Porsi i soldi a Gianni. “Per Fido,” dissi, con la voce che si spezzava.

Gianni mi prese la mano. La sua presa era ruvida, le unghie nere, ma i suoi occhi erano limpidi e dignitosi. “Tuo padre… mi ha riparato il motore del furgone gratis una volta, così potevo continuare a lavorare. Diceva che nessuno dovrebbe restare a piedi. Era un grand’uomo, ragazzo. Hai delle scarpe grandi da riempire.”

Tornai a casa sotto la pioggia, piangendo. Non per dolore, ma per vergogna. Avevo vissuto nella mia bolla milanese per così tanto tempo, pensando che mio padre fosse solo un semplice meccanico di provincia che non capiva la complessità del mondo moderno. Mi sbagliavo. Capiva l’unica cosa che contava davvero: i legami.

Non stava solo portando a spasso il cane. Stava facendo la ronda. Controllava la sua comunità. Si prendeva cura dei solitari, dei persi, dei rotti. Fido non era solo un animale domestico; era il passpartout che apriva i cuori della gente.

Le settimane diventarono mesi. Smisi di mettere le cuffie. Imparai i nomi della cassiera del supermercato, del postino e del giornalaio. Iniziai ad aggiustare cose nel quartiere – lo steccato della signora Bianchi, il rubinetto che perdeva della madre single della porta accanto. Non ero un meccanico, ma sapevo guardare i tutorial online e avevo gli attrezzi di papà.

Fido era sempre lì, il mio capocantiere peloso, scodinzolante, ponte tra me e il mondo.

Poi arrivò la Settimana 52. L’anniversario della morte di papà.

La scatola era vuota, tranne l’ultima busta e una piccola chiavetta USB.

Mi sedetti sul pavimento dell’officina, la testa di Fido sulle mie gambe. Inserii la chiavetta nel portatile. Partì un video.

Papà apparve sullo schermo. Sembrava stanco – doveva averlo girato subito dopo la diagnosi – ma sorrideva. Fido era sullo sfondo, che masticava una pallina da tennis.

“Ciao Dario,” disse papà. La sua voce riempì l’officina, calda e viva. “Se stai guardando questo, hai tenuto il cane. Bene. Sapevo che l’avresti fatto.”

Si avvicinò alla telecamera.

“So che pensi che ti abbia lasciato queste lettere per tenere felice Fido. Ma non è così. Le ho lasciate per farti uscire dalla tua testa. Sei sempre stato intelligente, Dario. Più di me. Ma a volte ti chiudi dentro quel tuo cervello. Ti dimentichi che la vita succede qui fuori, nel casino.”

Papà allungò la mano per accarezzare il vero Fido nel video.

“A un cane non importa della tua carriera, del tuo conto in banca o dei tuoi errori. Un cane vuole solo stare con te. Ti costringe a essere presente. Ti costringe a smettere di guardare a domani e a guardare adesso. E quando porti a spasso un cane, devi guardare il mondo. Devi vedere le persone.”

Fece una pausa, gli occhi lucidi.

“Mi mancherai, figliolo. Ma non sono preoccupato per te. Non più. Perché ormai avrai capito che Fido non era quello che aveva bisogno di essere salvato. Prendetevi cura l’uno dell’altro. Passo e chiudo.”

Lo schermo divenne nero.

Rimasi seduto lì per molto tempo. L’officina profumava di olio, pioggia e legno vecchio. Guardai Fido. Mi guardava, aspettando il prossimo comando.

Capii che non avevo ancora aperto l’ultima busta.

La strappai. Dentro c’era una sola chiave. La chiave di casa. Non una copia – la mia chiave.

E un biglietto: “Non devi restare qui, Dario. Ma ovunque tu vada, porta l’amore con te. Il mondo ha abbastanza persone intelligenti. Ha bisogno di più persone gentili.”

Non ho venduto la casa. Mi sono licenziato dallo studio a Milano e ho trovato un lavoro da remoto che mi permette di restare qui tra le colline.

Ogni sera, verso il tramonto, Fido e io andiamo al parco. Ci fermiamo alla panchina per vedere il signor Elio. Passiamo sotto il ponte per portare un thermos di caffè caldo a Gianni. Attraversiamo il paese, e la gente ci saluta. Non salutano più solo il cane; salutano me.

Mi chiamo Dario. Una volta pensavo che il successo fosse quanto in alto puoi salire. Ma mio padre, e un cane di nome Fido, mi hanno insegnato che una bella vita non è una questione di altitudine. È una questione di apertura. Riguarda chi tocchi, chi aiuti e con chi cammini fianco a fianco.

Il lutto è solo amore che non ha più un posto dove andare. Quindi, mettigli un guinzaglio e portalo a fare un giro. Potresti sorprenderti di chi incontri lungo la strada.

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