Cinquantadue lettere e un cane: il viaggio inaspettato per ritrovare me stesso tra le colline

Credevo che la cinquantaduesima busta fosse la fine. Pensavo che, una volta esauriti i compiti di papà e svuotata la cassetta di legno, la mia vita sarebbe scivolata in una tranquilla routine di campagna, scandita dalle passeggiate con Fido e dal lavoro al computer.

Mi sbagliavo di grosso. La cinquantaduesima busta non era il traguardo; era solo l’esame di ammissione.

Erano passati sei mesi da quel video finale. La primavera aveva invaso le colline umbre con una violenza di colori che a Milano non avrei mai notato: il giallo accecante della ginestra, il rosso dei papaveri tra gli olivi, il verde tenero delle viti appena nate.

Io e Fido avevamo i nostri rituali. La mattina presto caffè al Bar dello Sport, dove ormai i vecchietti non smettevano di parlare finché non arrivavo io per arbitrare le loro discussioni sulla Serie A. Poi lavoro da casa fino alle cinque. E infine, il giro di ronda.

Gianni non viveva più nella roulotte scassata. Con l’aiuto del prete e un po’ di insistenza da parte mia (e qualche ringhio persuasivo di Fido), avevamo convinto il Comune ad assegnargli una piccola casa popolare vicino alla ferrovia.

Gianni aveva ripulito il suo giardino e ora coltivava pomodori che regalava a tutto il vicinato. Aveva ancora le mani sporche di grasso e l’anima ferita, ma quando vedeva arrivare il furgone di papà, la sua schiena si raddrizzava.

Tutto sembrava perfetto, un ingranaggio ben oliato. Finché, un venerdì pomeriggio, l’ingranaggio si inceppò.

Ero nell’officina. Non la usavo per lavorare, ma mi piaceva tenerla pulita, in onore di Pietro. L’odore di olio motore e segatura era diventato il mio profumo preferito, più di qualsiasi acqua di colonia costosa che usavo in banca.

Sentii il rumore di un motore che soffriva. Non era il borbottio familiare dei trattori o la tosse delle Fiat Panda dei locali. Era un suono acuto, sibilante, costoso.

Una Porsche Cayenne nera, lucida come uno specchio, entrò nel piazzale, sollevando una nuvola di polvere bianca che fece starnutire Fido. Il motore si spense con un singulto metallico.

Dal lato del guidatore scese una donna. Poteva avere la mia età, forse qualche anno in più. Indossava un tailleur grigio impeccabile, tacchi a spillo che affondavano nella ghiaia e occhiali da sole che coprivano metà del viso.

Teneva il telefono all’orecchio e gesticolava con quella frenesia nervosa che riconoscevo fin troppo bene. Era il linguaggio del corpo di chi vive in “Tempo Reale”, dove ogni secondo perso è denaro bruciato. Ero io, un anno fa.

«No, ascolta, non mi interessa se il server è giù. Voglio quei report sulla mia scrivania entro lunedì mattina o saltano delle teste!» urlò al telefono, prima di chiudere la chiamata con rabbia.

Si tolse gli occhiali. Aveva occhi freddi, stanchi, circondati da occhiaie che nemmeno il trucco costoso riusciva a nascondere.

Mi guardò, squadrando i miei jeans sporchi e la maglietta sbiadita. Poi guardò l’insegna sbiadita sopra la mia testa: “OFFICINA PIETRO & FIGLIO”.

«Sei tu il meccanico?» chiese, senza nemmeno un buongiorno.

«Sono il figlio,» risposi, accarezzando la testa di Fido che si era avvicinato per annusare le sue scarpe costose. Lei si ritrasse come se il cane fosse radioattivo.

«Allontana quella bestia, per favore. Ho fretta. La macchina ha iniziato a fare un rumore infernale a dieci chilometri da qui e ora è morta. Devo essere a Roma entro stasera per una fusione aziendale. Riparala.»

Non era una domanda. Era un ordine.

Sentii una punta di fastidio salirmi lungo la schiena. Il vecchio Dario avrebbe ubbidito, intimidito dallo status e dall’arroganza. Il nuovo Dario, quello che aveva imparato a guardare i tramonti con un cane, sorrise.

«L’officina è chiusa, signora. Mio padre è morto un anno fa. Io non sono un meccanico, faccio consulenze finanziarie da remoto.»

Lei sbiancò. Guardò la sua macchina, poi la strada deserta, poi di nuovo me. La maschera di ferro vacillò per un secondo, rivelando un panico puro.

«Non… non c’è nessun altro? Il navigatore diceva che questa era l’unica officina nel raggio di trenta chilometri.»

«È vero. Il prossimo meccanico è a Perugia. Ma oggi è venerdì pomeriggio, probabilmente ha già chiuso.»

La donna si portò una mano alla fronte, massaggiandosi le tempie. Sembrava sul punto di crollare o di urlare. Fido, che aveva un radar infallibile per le emozioni umane, fece qualcosa che non faceva mai con gli estranei scortesi.

Si staccò dalla mia gamba e trotterellò verso di lei.

«Fido, no,» la avvertii.

Ma lui ignorò il comando. Si sedette davanti alla donna, inclinò la testa e le diede un colpetto gentile sulla mano con il naso umido. Lei sussultò, guardando in basso. Per un attimo, i suoi occhi incontrarono quelli color nocciola del cane.

«Non mi piacciono i cani,» mormorò lei, ma non ritrasse la mano.

«A Fido non importa,» dissi. «Lui giudica le persone in base al bisogno, non alle preferenze. Si chiama Elena?»

Lei mi guardò sorpresa. «Come lo sai?»

Indicai la targhetta sulla valigetta di pelle che aveva gettato sul sedile passeggero.

«Senta, Elena,» dissi, sospirando. «Non posso riparare la sua Porsche. Non ho gli strumenti elettronici per quella roba. Ma conosco qualcuno che forse può darle un’occhiata, se è un problema meccanico semplice. Solo che… beh, dovrà aspettare.»

«Quanto?»

«Un paio d’ore. Forse tre. Deve venire Gianni.»

«Gianni? È bravo?»

Sorrisi. «È il migliore con i rottami. E in questo momento, con tutto il rispetto, la sua Porsche è un rottame molto costoso.»

Elena non aveva scelta. Accettò con riluttanza. La invitai ad aspettare sotto il portico, sulla vecchia panca di legno dove papà passava i pomeriggi. Le offrii dell’acqua. Lei tirò fuori il laptop e iniziò a digitare furiosamente, creando una barriera invisibile tra lei e il mondo rurale che la circondava.

Chiamai Gianni. «Ehi, c’è una Porsche ferma qui. Sì, hai capito bene. Vieni quando puoi?»

Nel frattempo, il sole iniziò a scendere. L’aria si rinfrescò, portando l’odore dei gelsomini. Io continuai a lavorare al mio orto sul retro, lanciando ogni tanto un’occhiata alla nostra ospite.

Dopo un’ora, la batteria del suo portatile morì. Lei imprecò, cercando una presa che non c’era. Poi, costretta al silenzio digitale, si guardò intorno per la prima volta.

Fido era sdraiato ai suoi piedi. Non la toccava, le faceva solo compagnia. Una presenza costante, calda, che non chiedeva nulla in cambio.

«Perché mi sta fissando?» chiese lei all’improvviso, rompendo il silenzio.

Mi pulii le mani dalla terra e mi avvicinai. «Non ti sta fissando. Ti sta aspettando.»

«Aspettando cosa?»

«Che tu smetta di correre. Anche se sei seduta, la tua mente sta correndo a duecento all’ora. I cani lo sentono. Li rende nervosi.»

Elena rise, una risata amara e secca. «Se smetto di correre, crollo. È così che funziona il mio mondo. Ma tu dovresti saperlo, no? Hai detto che lavoravi in finanza.»

«Lavoravo. A Milano. In un grattacielo di vetro dove non si aprivano mai le finestre.»

«E perché sei finito qui? Fallimento?»

C’era una punta di acidità nella sua voce, ma anche curiosità.

«No. Eredità. Quella bestia pelosa lì,» indicai Fido, «e una serie di lettere che mi hanno costretto a capire che stavo scalando la montagna sbagliata.»

Elena guardò il cane. Lentamente, esitante, allungò una mano e affondò le dita nel pelo dorato dietro le orecchie di Fido. Il cane chiuse gli occhi ed emise un sospiro di pura beatitudine. Le spalle di Elena si abbassarono di due centimetri.

In quel momento arrivò Gianni.

Non arrivò con un carro attrezzi, ma con la sua vecchia Ape Car rumorosa. Scese, con la sua tuta blu macchiata e le mani grosse come badili.

Elena lo guardò con orrore. «Lui toccherà la mia macchina?»

«Buonasera anche a lei, signora,» disse Gianni, togliendosi il cappellino unto con una galanteria d’altri tempi. «Pietro mi ha insegnato che i motori sono tutti uguali. Hanno tutti bisogno di aria, benzina e una scintilla. Vediamo cosa ha il suo.»

Mentre Gianni armeggiava sotto il cofano della Porsche, parlando al motore come se fosse un bambino capriccioso, successe una cosa strana.

Il signor Elio passò di lì per la sua passeggiata serale. Vedendo Fido, si fermò.

«Ah, il mio vice-nipote preferito!» esclamò Elio. Fido scattò per salutarlo.

Elio notò Elena seduta sulla panca. «Buonasera. È lei la proprietaria dell’astronave?»

Elena annuì, rigida. Ma Elio, che aveva perso la timidezza mesi fa grazie alle missioni di papà, si sedette accanto a lei.

«Sa, Dario era come lei quando è arrivato. Aveva sempre quel telefono in mano. Sembrava che avesse il peso del mondo sulle spalle. Ora guardatelo. Sembra un contadino, ma è felice.»

Elena mi guardò. Ero lì che passavo una chiave inglese a Gianni, sporco e sudato.

«Non ti manca?» mi chiese lei. «L’adrenalina? Il successo? Essere qualcuno?»

Mi fermai. Pulii la chiave con uno straccio.

«Mi manca il sushi,» ammisi ridendo. «Ma essere qualcuno? Qui sono qualcuno. Sono Dario. Sono l’amico di Gianni. Sono quello che porta a spasso Fido. A Milano ero solo un job title. Qui sono una persona.»

Gianni emerse dal cofano trionfante.

«Manicotto dell’aria allentato e un sensore sporco. La centralina è andata in protezione per paura. Tipico di queste macchine moderne. Troppa intelligenza, poco coraggio.»

Gianni diede un giro di chiave. Il motore della Porsche ruggì, dolce e potente.

Elena si alzò di scatto. «Dio sia lodato. Quanto le devo?» Tirò fuori il portafoglio.

Gianni guardò i soldi con sospetto, poi guardò me.

«Signora, io non sono un meccanico ufficiale. Se le prendo i soldi e poi si rompe tra dieci chilometri, passo dei guai. Facciamo così: offra una cena a me e al ragazzo. Ho una fame che non ci vedo.»

Elena rimase spiazzata. «Una cena? Ma io devo andare a Roma…»

Guardò l’orologio. Era tardi. Il sole stava tramontando dietro i cipressi, infuocando il cielo esattamente come quel primo giorno alla baracca della porchetta.

Guardò la strada verso sud, poi guardò Fido che la fissava scodinzolando, poi guardò Gianni che si puliva le mani, e infine me.

Forse fu la stanchezza. Forse fu la bellezza crudele di quel paesaggio. O forse fu il fatto che Fido si era appena appoggiato contro le sue gambe, ancorandola alla terra.

«Conosco un posto,» dissi piano. «Fanno una pasta fatta in casa che potrebbe far risorgere i morti. E si può portare il cane.»

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