Cinquantadue lettere e un cane: il viaggio inaspettato per ritrovare me stesso tra le colline

Elena sospirò. Fu un suono lungo, come se stesse espellendo anni di aria compressa.

«D’accordo,» disse. «Ma guido io.»

Andammo alla trattoria del paese. Elena, Gianni, io e Fido sotto il tavolo.

All’inizio Elena era rigida. Controllava il telefono ogni due minuti. Ma poi arrivò il vino rosso. Arrivarono le tagliatelle al tartufo. Gianni iniziò a raccontare di quella volta che lui e mio padre avevano cercato di riparare un trattore durante una nevicata e avevano finito per bere grappa per scaldarsi finché non si erano addormentati nel fienile.

Elena rise. Una risata vera, di pancia, non quella secca del pomeriggio.

Mise via il telefono.

«Mio padre era un chirurgo,» raccontò lei improvvisamente, mentre spezzava il pane. «Non c’era mai. Quando è morto, mi ha lasciato un impero immobiliare e debiti emotivi che non finirò mai di pagare. Ho passato la vita a cercare di essere all’altezza del suo fantasma.»

Si fece silenzio al tavolo. Fido, sentendo il cambio di tono, mise il muso sulle ginocchia di Elena. Questa volta, lei affondò entrambe le mani nel suo pelo e lo tenne stretto, come un’ancora di salvezza.

«Mio padre mi ha lasciato un cane e una caccia al tesoro,» dissi io, versandole altro vino. «Per insegnarmi che i fantasmi non vogliono che siamo alla loro altezza. Vogliono che siamo felici.»

Uscimmo dal ristorante che era notte fonda. Il cielo era una coperta di stelle che a Milano non si vedono mai.

Elena camminava verso la sua Porsche. Si fermò davanti alla portiera.

«Grazie,» disse. «Non per la macchina. Per… questo.» Indicò il gruppo strampalato che eravamo: un ex manager, un ex senzatetto e un cane.

«Tornerai a Roma?» chiese Gianni.

«Sì. Ma forse… forse lunedì non urlerò contro i miei assistenti.» Sorrise, un sorriso stanco ma dolce. «Dario, hai ancora quella chiavetta USB? Quella con il video di tuo padre?»

«Sì, perché?»

«Perché penso che dovresti farne delle copie. Il mondo è pieno di gente come me. Gente che ha bisogno di istruzioni per smettere di correre.»

Salì in macchina e partì, svanendo nella notte.

Io e Gianni rimanemmo lì. Fido abbaiò una volta al buio, un saluto.

«Pensi che tornerà?» chiese Gianni.

«Non lo so,» risposi. «Ma stasera ha accarezzato il cane. È un inizio.»

Tornammo verso casa a piedi, sotto le stelle. Mentre camminavo, mi venne un’idea. Elena aveva ragione. Non potevo tenere questa “magia” solo per me. Papà aveva aiutato me, io avevo aiutato Gianni, Fido aveva aiutato tutti.

Entrai in officina. Presi una vecchia scatola di scarpe vuota. Presi un pennarello.

Sulla scatola scrissi: “MANUALE DI SOPRAVVIVENZA PER ANIME IN CORSA”.

Mi sedetti alla scrivania, presi un foglio e iniziai a scrivere.

Busta n. 1.

A chiunque trovi questa scatola. Smetti di leggere. Esci fuori. Cerca un cane, anche non tuo. Guardalo negli occhi. Respira.

Fido si accucciò ai miei piedi, appoggiando il mento sulla mia scarpa.

Capii che il mio viaggio non era finito con la busta 52. Mio padre mi aveva insegnato a leggere la mappa. Ora toccava a me disegnare i sentieri per qualcun altro.

Accarezzai Fido.

«Che ne dici, socio? Siamo pronti per un nuovo apprendista?»

Fido sbuffò e chiuse gli occhi, con quella saggezza antica che hanno solo i cani che hanno visto il dolore trasformarsi in amore. La sua coda fece un solo, forte colpo sul pavimento di legno. Thump.

Era un sì.

Spensi la luce dell’officina, ma lasciai la porta socchiusa. Non si sa mai chi potrebbe aver bisogno di riparare un motore, o un cuore, nel mezzo della notte.

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