Pensavo che quell’incontro nel parcheggio fosse già il finale perfetto della nostra storia con Juno.
Ho capito che mi sbagliavo la prima domenica in cui il suo telefono non ha risposto.
Dopo quel giorno al supermercato ci siamo sentite quasi subito.
Quando abbiamo scambiato i numeri, lei mi ha detto il suo nome, come se fosse un dettaglio in mezzo alle lacrime.
Si chiamava Elena.
È diventata una piccola abitudine silenziosa.
Ogni domenica le mandavo una foto di Juno.
Niente di speciale, almeno in apparenza.
Juno che dorme sul divano con la lingua un po’ fuori.
Juno nel bosco, mezzo coperto dalle foglie, con il muso tutto serio come se stesse dirigendo il traffico degli alberi.
Juno sul tappeto, a pancia all’aria, con le zampe rigide come se avesse appena finito una coreografia.
A volte lei rispondeva con messaggi lunghi, pieni di ricordi.
Altre volte solo con quella frase che ormai riconoscevo subito:
«Faceva così anche da piccolo.»
La prima volta che l’ho letta mi ha fatto sorridere.
La decima volta mi ha commosso.
La trentesima volta ho capito che quelle parole erano il suo modo di ricucire un buco rimasto aperto per nove anni.
Intanto Juno invecchiava.
Piano, ma invecchiava.
La veterinaria parlava di artrite che cominciava a farsi sentire, di passeggiate più brevi, di riposo.
Io annuivo, ma dentro sentivo una lama sottile: non ero pronta neanche a immaginare una vita senza quel muso accanto.
Una domenica di marzo ho scattato una foto banale: Juno con il muso appoggiato sul tavolo, che fissava una mela come se fosse l’oggetto più interessante dell’universo.
Ho scritto sotto:
«Controllo qualità merenda.»
Ho premuto invio e ho aspettato il solito “Faceva così anche da piccolo”.
Non è arrivato niente.
Ho pensato: starà facendo altro, risponderà dopo.
La sera ho controllato di nuovo il telefono.
Ancora niente.
Il giorno dopo ho aperto l’app per rileggere gli ultimi messaggi, come se lì dentro ci fosse una spiegazione.
Gli ultimi erano di una settimana prima.
Una foto di Juno nel bosco, pieno di fango fino alla pancia.
Lei aveva scritto:
«Anche da cucciolo entrava in tutte le pozzanghere.
Dicevo sempre che aveva il radar del fango.»
Ho lasciato passare un’altra giornata.
Poi un’altra ancora.
Ogni volta che guardavo l’icona della chat sentivo qualcosa stringersi nello stomaco, quella sensazione mista di presagio e di paura che conosco fin troppo bene.
La telefonata è arrivata il giovedì sera.
Numero sconosciuto.
Ho quasi lasciato squillare.
Poi ho risposto, con Juno già in allerta che mi guardava fisso.
«Pronto?»
«Buonasera… è la signora che ha Juno?»
La voce era giovane, incerta.
Ho sentito il rumore di sottofondo tipico di un corridoio: passi, un carrello in lontananza, un altoparlante che chiamava un medico.
«Sì, sono io» ho detto, sentendo il cuore accelerare.
«Chi parla?»
«Sono la figlia di Elena.»
Pausa.
«Mi chiamo Marta.»
Ho appoggiato la mano sul collo di Juno per tenermi a qualcosa.
«Mia madre… mi ha chiesto di avvisarla se fosse successo qualcosa» ha continuato.
«Ha avuto un malore domenica scorsa.
È in ospedale da allora.»
Le parole hanno impiegato qualche secondo a mettere radici.
Malore.
Domenica.
Ospedale.
«È grave?» ho chiesto, la voce più bassa di quanto volessi.
«Adesso è stabile» ha risposto Marta.
«Ma stanno ancora facendo accertamenti.
Sul suo telefono aveva il suo numero salvato come “Chiara – Juno nuova vita”.
Mi ha pregato di avvisarla appena avessi potuto.»
Ho chiuso gli occhi un istante.
“Nuova vita”.
Mi sono chiesta quante volte aveva aperto la nostra chat nelle ultime settimane, accarezzando le foto con lo sguardo.
Non ci ho pensato troppo.
«In che ospedale si trova?» ho chiesto.
Mentre mi dava il nome, Juno si è alzato, come se avesse capito che stavamo per uscire.
Il suo corpo più lento non riusciva a nascondere la velocità con cui la sua testa decideva.
Due ore dopo ero davanti all’ingresso del reparto, con Juno accanto e il certificato di cane da assistenza già in mano.
L’infermiera alla porta mi ha studiata per un istante, poi ha guardato l’imbracatura e ha annuito.
«Se rimane tranquillo può entrare» ha detto.
«Ma niente salti sul letto, per favore.»
«Promesso» ho risposto, lanciando un’occhiata a Juno come se potesse davvero mettersi a fare parkour.
Il corridoio sapeva di disinfettante e di caffè vecchio.
La luce al neon appiattiva i colori, ma Juno camminava con lo stesso passo concentrato che ha quando attraversiamo la strada.
Ogni tanto sfiorava la mia gamba con il fianco, come per ricordarmi che ero ancora lì, nel mio corpo, anche se la testa correva.
Marta ci aspettava davanti alla stanza.
«Lui è…» ha iniziato.
«Juno» ho completato io.
Lei ha fatto un mezzo sorriso.
«Mamma diceva sempre che se l’avesse rivisto ci avrebbe messo mezzo secondo a riconoscerlo.»
Sono entrata nella stanza con un respiro profondo.
Elena era sul letto, più piccola di come la ricordavo nel supermercato.
Senza cappotto, senza borsa di tela, senza le luci dei neon dei reparti dietro di lei.
Solo una donna con i capelli in disordine, qualche filo grigio in più e gli occhi chiusi.
Juno si è fermato sullo stipite.
L’ho sentito inspirare, il suo petto che si allargava sotto la mia mano.
Poi ha fatto due passi lenti verso il letto.
«Mamma, guarda chi è venuto» ha detto Marta, avvicinandosi.
Elena ha aperto gli occhi.
Per un secondo hanno girato nella stanza senza mettere a fuoco.
Poi si sono fermati su di lui.
Non ha guardato me.
Non ha guardato l’imbracatura.
Ha guardato solo quel muso.
«Amore mio» ha sussurrato, con la voce impastata.
«Sei tu.»
Juno non ha mosso la coda in modo esagerato, non ha pianto, non è saltato.
Ha fatto una cosa sola, lenta, precisa, come se l’avesse provata mille volte.
Ha appoggiato il muso sul bordo del letto e poi, pianissimo, ha infilato la testa sotto la sua mano, spingendo la pelle contro il palmo.
Mi si è stretto qualcosa dentro al petto.
Era lo stesso gesto che avevo visto nel parcheggio, quando aveva appoggiato la testa sulla sua spalla.
Solo più delicato, come se anche lui sentisse che quel corpo era fragile.
Abbiamo parlato un po’.
Elena era stanca, ma lucida.
Ha spiegato che aveva avuto un crollo improvviso, uno svenimento al supermercato, ironia della sorte.
Parlavano di glicemia, di pressione, di valori.
Le parole scorrevano tra i tubi e i bip delle macchine.
A un certo punto, però, Juno ha cambiato postura.
Ha irrigidito il corpo, ha spostato il peso sulle zampe anteriori e ha puntato il muso verso il petto di Elena.
Poi ha girato la testa verso di me e ha fatto quel piccolo verso basso, quasi un grugnito, che conosco fin troppo bene.
«Juno?» ho mormorato.
Mi ha dato una zampata sul ginocchio, non forte, ma decisa.
Il segnale che usa con me quando qualcosa non va.
Ho sentito il solito brivido di allarme scorrere su per la schiena.
«Mi scusi» ho detto a Marta.
«Sua madre è diabetica?»
«Hanno parlato di zuccheri nel sangue un po’ strani» ha risposto.
«Perché?»
Non ho perso tempo.
«Mi può chiamare un’infermiera?»
La macchina accanto al letto segnava valori nella norma, ma io di Juno mi fido più che dei display.
Quando un’infermiera è entrata, ho spiegato in fretta che il cane è addestrato a rilevare variazioni di glicemia.
Lei ha alzato un sopracciglio, scettica, ma ha preso comunque il glucometro.
Ha fatto il controllo quasi per gentilezza, come si fa con i bambini insistenti.
Il numero è apparso sullo schermo qualche secondo dopo.
«Cavolo» ha mormorato.
«Sta scendendo troppo in fretta.
La goccia non mente.»
Si è mossa più veloce, ha preparato la soluzione glucosata, ha avvisato il medico.
Io sono rimasta lì, con una mano sul pelo di Juno, a guardare quell’ago entrare nella flebo.
Elena ci fissava, confusa.
«Che succede?» ha chiesto piano.
«Sta succedendo che il suo ex cucciolo le ha appena fatto da allarme vivente» ho risposto, cercando di sorridere.
«È molto bravo in questo genere di cose.»
Lei ha chiuso gli occhi un istante.
Quando li ha riaperti erano lucidi, ma stavolta non solo per la paura.
«Sapevo che era speciale» ha sussurrato.
«Ma non avrei mai immaginato che un giorno… sarebbe toccato a me.»
Più tardi, quando la situazione si è stabilizzata, siamo restate un po’ sole nella stanza.
Marta era uscita a parlare con i medici.
Il reparto era calmo, Juno respirava piano ai miei piedi.
«Ho paura che invecchi» mi è scappato, quasi senza pensarci.
Non era il discorso che avevamo iniziato, ma era quello che mi stava più vicino alla pelle.
Elena ha girato il viso verso di me.
«Lo so» ha detto.
«Ho avuto lo stesso terrore quando me l’hanno portato via per la scuola.
Per anni ho avuto paura che soffrisse, che fosse infelice, che non fosse nel posto giusto.»
Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬






