Alle 08:00 il nodo della mia cravatta era impeccabile. Alle 08:30 scherzavo con il barista mentre bevevo il solito espresso macchiato. Nessuno poteva immaginare che, dentro di me, avevo già staccato la spina.
La depressione non è come ve la raccontano nei film drammatici. Non è piangere disperati sotto la pioggia o non lavarsi per giorni. Almeno, non per quelli come me. Qui, nella nostra società che venera l’apparenza, la “bella figura”, la depressione è un attore premio Oscar che recita ogni giorno la parte della persona felice.
Mi chiamo Dario. Ho 36 anni. Lavoro in una buona azienda, ho un appartamento in centro. La mia vita, vista da fuori, è quella che ogni madre vorrebbe per il proprio figlio. Ma la verità è un’altra: sono prigioniero di un ruolo che odio.
La depressione è un parassita silenzioso. Non ti divora in un boccone solo. Ti mangia a piccoli morsi, giorno dopo giorno. Prima si porta via il sapore del caffè. Poi la voglia di ridere alle battute dei colleghi. E alla fine, ti toglie la speranza che domani possa esserci un po’ di sole, anche se fuori il cielo è azzurro. Si “funziona”. Ci si alza, ci si veste bene, si sorride. Si risponde: “Tutto bene, dai, si tira avanti”. E mentre lo dici, vorresti urlare così forte da spaccare i vetri. Ma fuori? Silenzio assoluto.
In quel martedì grigio di dicembre, con la nebbia che avvolgeva la città, ho deciso che ero stanco. Non la stanchezza che passa con una dormita. Era l’anima a essere esausta. Non volevo morire, sia chiaro. Volevo solo spegnere il rumore nella mia testa. Volevo smettere di dover essere qualcuno.
Sono tornato a casa prima dal lavoro. Il mio appartamento era in ordine maniacale. È un luogo comune pensare che i depressi vivano nel caos. Io avevo pagato tutte le bollette, disdetto l’abbonamento alla palestra, pulito il pavimento. Volevo andarmene senza disturbare. Questa è la logica perversa di questo male: ti convince che stai facendo un favore al mondo togliendo il disturbo.
Ero in salotto e la guardavo: la mia Monstera. Una pianta enorme che curavo da cinque anni. Era l’unica cosa viva in quella casa silenziosa. Non potevo lasciarla morire di sete quando io… non ci sarei più stato.
Ho preso il vaso pesante e sono sceso al piano di sotto. Dalla Signora Berti.
La Signora Berti è una colonna portante del nostro palazzo. Vedova, sulla settantina, una di quelle donne di una volta, temprate dalla vita. È quella che sa tutto di tutti, che ti sgrida se non chiudi bene il portone, ma che lascia il profumo di soffritto nel corridoio ogni domenica. In tre anni ci eravamo scambiati solo buongiorno e buonasera.
Ho suonato. Il cuore non batteva forte. Era calmo, piatto. La porta si è aperta. La Signora Berti era lì, con il suo eterno grembiule infarinato e gli occhiali sulla punta del naso.
“Dario? Che c’è? Hai finito il sale o hai perso le chiavi?”
Ho forzato il mio sorriso migliore. Quello da riunione aziendale. “Buonasera, Signora Berti. Scusi il disturbo. Devo partire. Un viaggio di lavoro. Lungo. Molto lungo. Forse la ditta mi trasferisce all’estero.” La bugia è uscita fluida, perfetta. “Volevo chiederle se poteva prendere la mia pianta. So che Lei ha il pollice verde, i suoi gerani sul balcone sono bellissimi. Non volevo lasciarla morire.”
Le ho porto il vaso, pronto a lasciarlo lì e scappare. Pronto a lasciar andare tutto.
La Signora Berti non ha preso la pianta. È rimasta ferma sulla soglia, le mani sui fianchi. I suoi occhi scuri, solitamente severi, mi fissavano intensamente. Un silenzio pesante, imbarazzante, rotto solo dal rumore di una TV accesa in lontananza.
“Un viaggio di lavoro…”, ha ripetuto lei, lenta. “Sì. Parto domani mattina presto.” Volevo andarmene. Perché non prendeva quella maledetta pianta?
“Balle”, ha detto secca.
Ho trasalito. “Come, scusi?”
“Ho detto balle. Bugie”, ha scandito bene la parola. La sua voce si è abbassata, perdendo quella durezza tipica da vicina impicciona. “Hai gli stessi occhi di mio marito Piero, un mese prima che se ne andasse. Stai qui, pettinato, profumato, ma sembri un fantasma, Dario.”
Il nodo alla gola, quello che ignoravo da mesi, si è stretto all’improvviso. Mi mancava l’aria.
“Entra”, mi ha ordinato. Non era un invito. Era un imperativo.
“Non posso, devo fare le valigie…”
“Entra, posa quella pianta e siediti. Subito.” Si è girata ed è andata verso la cucina.
Sono entrato. Non so perché. Forse perché, in fondo, siamo tutti bambini che aspettano che qualcuno ci dica cosa fare quando siamo persi.
La sua cucina era piccola, calda, e profumava di caffè e cannella. Ha messo su la moka. Niente tè alle erbe, ma un caffè forte, nero. Ci siamo seduti al tavolo coperto da una tovaglia di plastica a fiori.
“Sai”, ha iniziato lei, guardando la caffettiera sul fuoco. “Quando Piero è morto, tutti mi dicevano: ‘Marisa, sei forte, devi andare avanti’. E io andavo avanti. Facevo la spesa, andavo a messa, stiravo le camicie che lui non metteva più.”
Si è girata verso di me. E ho visto una tristezza antica nei suoi occhi. “Ma ogni sera, quando chiudevo la porta, speravo che il soffitto mi crollasse addosso. Ero stanca, ragazzo mio. Volevo solo che il mondo la smettesse di girare e fare tutto quel chiasso.”
Guardavo la tazzina vuota davanti a me. Le mie mani tremavano. La maschera stava cadendo. Lì, in quella cucina che sapeva di casa vera, non riuscivo più a recitare.
“Ti senti un peso, vero?”, ha continuato lei, come se mi leggesse nel pensiero. “Pensi che se sparisci, fai un favore agli altri. Ma è la malattia che parla. Non sei tu.”
Ha allungato una mano rugosa e ha stretto il mio avambraccio. Una presa forte, viva. “Non è una vergogna cadere, Dario. Ma è vietato restare a terra se hai ancora le gambe. Credi di essere debole? Guardati. Combatti ogni giorno contro un mostro invisibile e continui a camminare. Sai quanto coraggio ci vuole? Sei più forte di quanto immagini.”
E lì, sono crollato. Non una lacrima cinematografica. Un pianto brutto, singhiozzante, di quelli che ti scuotono le spalle. Ho pianto per tutti i “sto bene” falsi che avevo detto. Ho pianto perché, per la prima volta, qualcuno aveva visto me, non il Dario efficiente, ma il Dario rotto.
Siamo rimasti lì un’ora. Lei mi ha versato il caffè. Non ha detto frasi fatte tipo “andrà tutto bene”. Mi ha solo raccontato di come lei ha ricominciato a curare i suoi gerani, un giorno alla volta.
“La pianta te la riporti su”, mi ha detto alla porta, tornando a essere la Signora Berti severa. “Non c’entra niente con il mio arredamento. E tu hai la responsabilità di innaffiarla. Se vedo una foglia gialla, vengo su a suonarti il campanello, intesi?”
Sono tornato nel corridoio freddo, con il vaso pesante tra le braccia. Il peso nel petto non era sparito. La depressione non passa con un caffè. Ma qualcosa era cambiato. Ero stato visto. Ed ero sopravvissuto.
Sono rientrato nel mio appartamento. Non ho fatto la valigia. Ho rimesso la Monstera al suo posto, vicino alla finestra. Poi ho fatto la cosa più coraggiosa degli ultimi anni: mi sono messo il pigiama e ho puntato la sveglia alle 7:00.
Non perché tutto fosse risolto. Ma perché sapevo che la Signora Berti, l’indomani, avrebbe controllato se stavo uscendo per andare al lavoro.
A tutti voi che sorridete fuori mentre dentro urlate: non siete soli. E non siete un peso. Il vero coraggio non è ruggire come un leone. A volte il coraggio è solo quella vocina flebile alla fine della giornata che sussurra: “Ci riprovo domani”.
Tenete duro. Il mondo è un posto migliore con voi dentro.
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