Cravatta impeccabile, anima a pezzi: il caffè che mi ha salvato la vita

Alle 07:00 la sveglia ha suonato come un martello sul vetro. La mia prima reazione è stata odio puro: odio per il rumore, per il giorno che ricominciava, per il fatto che il mondo pretendeva ancora qualcosa da me. Poi ho ricordato la frase della Signora Berti, secca come uno schiaffo: “Se vedo una foglia gialla, vengo su a suonarti il campanello, intesi?”

Mi sono tirato su a fatica, con la sensazione di indossare un corpo che non era il mio. La stanza era grigia, la città fuori era ancora avvolta nella nebbia di dicembre, e dentro la testa il rumore era tornato, identico. Ma accanto alla finestra, la Monstera stava lì, enorme, ferma, come se mi guardasse senza giudicarmi.

Mi sono avvicinato e ho infilato un dito nella terra. Umida. Ho deglutito. “Va bene”, ho sussurrato, non so a chi. “Un giorno. Solo oggi.”

In cucina ho fatto partire la moka, come se ripetere un gesto normale potesse riportare il mio cervello nel mondo dei vivi. Il caffè ha borbottato, ha riempito l’aria di quel profumo che ieri mi sembrava perso per sempre. Non l’ho “sentito” davvero, non come una volta, ma per un secondo ho riconosciuto l’ombra di qualcosa.

Ho guardato il telefono. Notifiche. Email. Messaggi di lavoro. Il solito elenco di richieste travestite da cordialità. Il mio dito è rimasto sospeso sopra lo schermo, come se il vetro fosse una trappola.

Ho fatto una cosa stupida e enorme: ho aperto la rubrica e ho cercato un numero che avevo salvato mesi prima e mai usato. “Dott.ssa Rinaldi – contatto consigliato”. Me l’aveva dato un collega, con una di quelle frasi buttate lì: “Se ti serve… sai, lei è brava.” Io avevo annuito, sorridendo. Poi avevo messo quel nome in un cassetto mentale e avevo chiuso a chiave.

Ho premuto “chiama” prima che la parte di me che sapeva sabotare tutto potesse fermarmi.

Il telefono ha squillato tre volte. Quando ha risposto una voce femminile, calma, senza urgenza e senza freddezza, mi è mancato il fiato.

“Studio Rinaldi, buongiorno.”

Mi è uscito un suono che sembrava una risata strozzata. “Buongiorno… mi scusi. Io… mi chiamo Dario. Mi hanno… mi hanno dato il suo numero.”

Una pausa breve, piena di attenzione. “Ciao Dario. Hai fatto bene a chiamare. Come posso aiutarti?”

E lì ho capito che non avevo un discorso pronto. Ho capito che per anni avevo recitato talmente bene che avevo dimenticato come si parla quando non si recita. Ho ingoiato saliva e ho detto la cosa più semplice, la più vera.

“Non sto bene.”

Non è successo niente di cinematografico. Non sono partite sirene. Non è crollato il soffitto. La voce dall’altra parte non mi ha spaventato, non mi ha fatto sentire ridicolo. Ha solo detto: “Ok. Ti va di venire oggi? Anche solo per parlare mezz’ora.”

Ho guardato la mia cucina, la tazza, il cappotto appeso. La parte di me che voleva sparire ha provato a tirarmi giù: “Non serve, non cambierà, fai finta e vai a lavorare.” Ma poi mi è tornata in mente la presa della Signora Berti sul mio avambraccio. Forte. Viva.

“Sì”, ho risposto. “Sì, vengo.”

Quando ho chiuso la chiamata mi sono ritrovato con le mani che tremavano, ma non era solo paura. Era come se una porta, minuscola, si fosse socchiusa. Una fessura d’aria in una stanza chiusa da anni.

Mi sono vestito come sempre: camicia, giacca, cravatta. Il nodo era impeccabile, anche se dentro ero ancora un caos. Eppure quella mattina c’era una differenza: non mi vestivo per convincere gli altri che ero a posto. Mi vestivo perché dovevo uscire, perché avevo un appuntamento, perché avevo preso una decisione che non aveva nulla a che fare con “bella figura”.

Quando ho aperto la porta di casa, la porta di fronte si è socchiusa di un centimetro. Un occhio scuro mi ha osservato.

“Dario.”

La Signora Berti non era in grembiule, ma in vestaglia, e sembrava ugualmente pronta a fare la guardia al mondo.

“Buongiorno, Signora Berti.”

“Buongiorno. Hai occhiaie che ci potrei coltivare i funghi, ma sei in piedi.” Ha annusato l’aria come se potesse capire la verità dall’odore. “Dove vai?”

E lì, senza pensarci troppo, ho smesso di inventare. Ho scelto una verità piccola, gestibile.

“Ho un appuntamento. Importante.”

Lei ha stretto le labbra. “Dal dottore.”

Non era una domanda. Era una sentenza.

Sono rimasto immobile, con la mano sulla maniglia. Poi ho annuito, piano.

“Bravo”, ha detto. Una parola sola. E mi ha fatto più effetto di cento discorsi motivazionali. “Quando torni, bussa. Ti do un piatto di pasta. Senza discussioni.”

“Non voglio disturbare…”

“Balle”, ha tagliato corto, e poi, per la prima volta, le ho visto un’ombra di sorriso. “Vai.”

L’aria fuori era fredda e umida. Camminavo come un automa, ma ogni passo era una dichiarazione: oggi non mi nascondo, oggi non scappo. Sul tram, guardavo la gente intorno a me: facce normali, borse, cellulari, occhi persi nel vuoto. E mi sono chiesto quante cravatte impeccabili nascondessero lo stesso rumore che avevo io.

Lo studio della Dott.ssa Rinaldi era in una via tranquilla, con un portone anonimo. Niente divani di lusso, niente atmosfera da film. Una sala d’attesa con riviste vecchie e una pianta che sembrava sopravvivere nonostante tutto. L’ho guardata e ho pensato: “Ecco. Anche lei.”

Quando sono entrato, la Dott.ssa Rinaldi mi ha stretto la mano con fermezza. Avrà avuto sui cinquanta, capelli raccolti, occhi chiari che non ti frugavano addosso, ma ti vedevano. Mi ha indicato una poltrona.

“Puoi darmi del tu, se ti va.”

Ho annuito. Mi sono seduto. Il silenzio era diverso da quello di casa mia: non era un silenzio che giudicava, era un silenzio che aspettava.

“Da quanto tempo ti senti così, Dario?” ha chiesto.

E io, che di solito avevo sempre una risposta pronta, ho fatto la cosa più strana: ho respirato. Ho guardato le mie mani. Ho lasciato cadere la maschera, pezzo per pezzo.

“Non lo so. Forse… anni. Ma negli ultimi mesi… è come se avessi… spento tutto.”

Non le ho raccontato dettagli che non volevo nemmeno nominare. Le ho raccontato il vuoto. Il “funzionare”. Il sorriso che si incolla in faccia come una maschera. Il fatto che ti senti un impostore persino quando soffri.

Lei ha ascoltato senza interrompere. Ogni tanto annuiva, come se quello che dicevo avesse un senso, come se non fossi un guasto da riparare in fretta.

“Quello che descrivi è più comune di quanto pensi”, ha detto alla fine. “E non è colpa tua. Ma serve un piano, perché da soli, con quel rumore, è difficile.”

“Un piano?” ho ripetuto, come se fosse una parola enorme.

“Sì. Piccoli passi. Una rete. Persone. Abitudini semplici. E, se necessario, un supporto medico con uno specialista. Non perché sei rotto, ma perché sei stanco. E la stanchezza dell’anima non si cura con la forza di volontà.”

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