Mi sono trovato a piangere di nuovo, ma non come ieri. Non era un crollo. Era più simile a una perdita lenta, come se qualcosa dentro finalmente potesse uscire senza vergogna.
“Ho paura”, ho ammesso. “Ho paura che se smetto di recitare, tutti… si allontanino.”
Lei ha inclinato la testa. “Sai cosa succede spesso? Che quando una persona smette di recitare, qualcuno intorno a lei si sente autorizzato a smettere anche lui. Non ti prometto che tutti capiranno. Ma ti prometto che non sei solo.”
Sono uscito dallo studio con un foglio in mano: un appuntamento per la settimana dopo, un numero da chiamare in caso di bisogno, e una lista di cose ridicole e serie allo stesso tempo: dormire, mangiare, camminare dieci minuti, non isolarsi. Sembrava troppo poco per una guerra, ma era comunque qualcosa.
Il tragitto di ritorno mi è sembrato più lungo. La città era sempre grigia, la nebbia sempre densa. Eppure, a un certo punto, ho notato una cosa banale: in un bar, due persone ridevano. Una risata vera, senza filtri. Mi ha dato fastidio e mi ha scaldato insieme.
Quando sono arrivato al palazzo, ho trovato la Signora Berti che stava rientrando con le buste della spesa. Mi ha guardato come si guarda un termometro.
“Allora?” ha chiesto.
“Ci sono andato”, ho detto. “E… ci torno.”
Lei ha fatto un verso che poteva essere un “bene” o un “era ora”. “Hai mangiato?”
Ho esitato. “Non molto.”
“Su.” Ha sollevato una busta. “Ho fatto il ragù. E non accetto no. Se non vieni, salgo io e te lo verso sul pianerottolo.”
Sono entrato nel suo appartamento come se stessi entrando in un mondo parallelo. La cucina era calda, piena di odori, di suoni. La TV in lontananza parlava di qualcosa di irrilevante. Sul tavolo c’erano due piatti già pronti, come se lei avesse saputo da sempre che mi sarei seduto lì.
Mentre mangiavamo, non mi ha tempestato di domande. Mi raccontava invece cose piccole, come se stesse cucendo un filo tra me e la vita: la signora del terzo piano che litiga sempre con il marito, il gatto del portinaio che ruba i salami, il suo Piero che odiava il brodo ma lo mangiava per farla contenta.
A un certo punto ha appoggiato la forchetta e mi ha guardato serio.
“Dario.”
“Sì?”
“Tu non sei la tua cravatta. Non sei il tuo lavoro. Non sei l’appartamento in centro.” Ha indicato il mio petto con un dito. “Sei quello che c’è qui. E quello qui si è stancato. Bene. Ora si cura. Punto.”
Ho sentito salire un sorriso piccolo, involontario. “Lei parla come un generale.”
“Per forza”, ha risposto. “Se la vita fa la guerra, qualcuno deve fare il comandante.”
Nei giorni successivi non è successo niente di miracoloso. La depressione non ha fatto le valigie e non se n’è andata. Era ancora lì, silenziosa, con la sua voce che sapeva essere convincente. Ma ora c’era un’altra voce, ruvida e concreta: quella della Signora Berti che bussava due volte al mio portone alle 07:30.
“Sei vivo?” gridava dal corridoio.
“Purtroppo sì”, rispondevo io, e sentivo un mezzo sorriso nella mia voce.
“Bene. Allora muovi quelle gambe.”
Un giorno, mentre rientravo, ho trovato un biglietto infilato sotto la porta. Carta a righe, calligrafia secca.
“ORE 19:00 — INNAFFIA LA MONSTERA. SE NO SUONO. — BERTI.”
Ho riso da solo nel corridoio. Una risata breve, ma vera. E ho capito che quella pianta non era più solo una pianta. Era un patto. Un filo. Un pretesto per restare.
La settimana dopo, al lavoro, ho fatto qualcosa che mi terrorizzava. Ho chiesto di parlare con il mio responsabile. Non ho fatto scenate, non ho accusato nessuno. Ho detto solo: “Sto attraversando un periodo difficile e sto iniziando un percorso. Ho bisogno di riorganizzare alcune cose.” Mi aspettavo un muro, una faccia infastidita, un giudizio.
Invece lui ha sospirato, si è tolto gli occhiali e ha detto piano: “Grazie per avermelo detto. Vediamo cosa possiamo fare.”
Non era la soluzione. Ma era una crepa nel muro. E da una crepa può entrare aria.
La sera, tornando a casa, ho trovato la Signora Berti sul pianerottolo, con le braccia incrociate. Sembrava stesse aspettando l’ispettore dei carabinieri.
“Come va?” ha chiesto.
“Non bene”, ho risposto con sincerità. “Ma… ci sto provando.”
Lei ha annuito, come se quella fosse l’unica risposta accettabile. Poi ha tirato fuori dalla tasca un piccolo vaso con una piantina minuscola, due foglioline timide.
“Che cos’è?” ho chiesto.
“Un pothos. Resiste a tutto. Pure alle tue facce da funerale.” Me lo ha messo in mano. “Lo metti vicino alla finestra. E lo annaffi. Se muore, vengo a piangere da te, capito?”
Ho guardato quella cosa piccola e testarda. Ho sentito un nodo in gola, ma non era solo dolore. Era gratitudine, quella strana emozione che non credevi di meritare.
“Signora Berti…” ho iniziato.
“Non fare il melodrammatico”, mi ha interrotto. “Vai su. E domani… ci riprovi.”
Sono entrato nel mio appartamento e ho posato il pothos accanto alla Monstera. Due piante. Due pretesti per restare. Ho guardato la città fuori, ancora nebbiosa, ancora imperfetta.
Poi ho fatto una cosa piccola, quasi ridicola: ho scritto sul calendario del telefono un promemoria per il giorno dopo.
“07:00 — ALZATI. 07:30 — SOPRAVVIVI. 19:00 — ANNAFFIA.”
Non era felicità. Non era guarigione. Era qualcosa di più realistico e più umano: continuità. Un filo sottile che diceva che domani poteva esistere.
Ho indossato il pigiama e ho puntato la sveglia. Prima di spegnere la luce, ho pensato a tutti quelli che sorridono fuori mentre dentro urlano. Ho pensato alla cravatta impeccabile, al barista, al mio “tutto bene”.
E mi sono detto, senza retorica, senza frasi da poster: oggi non ho vinto. Ma oggi non mi sono arreso.
E a volte, per una vita intera, basta questo.






