Ridevano quando la nuova impiegata della logistica chiese una cartella. Alzavano gli occhi al cielo quando provava ad aiutare, trattandola come l’ennesima nuova arrivata destinata a mollare nel giro di una settimana. Le buttavano pile di pratiche sulla scrivania e prendevano in giro il suo silenzio, convinti che fosse solo un altro ingranaggio anonimo in una macchina che non funzionava più. Nessuno immaginava che quella donna con la felpa scolorita nascondesse un segreto capace di mettere in ginocchio l’intera base – e che la “segretaria” che stavano bullizzando fosse in realtà l’Ammiraglio mandata a salvarli tutti.
Parte 1 – Il fantasma nel sistema
Il vento sul Mar Tirreno, alla Base Aerea Navale di Porto Vigile, non si limitava a soffiare: graffiava. Portava con sé odore di salsedine, ruggine e cinquant’anni di manutenzione rimandata.
Quando la piccola berlina grigia si fermò davanti al cancello principale alle sei in punto del mattino, la foschia era ancora aggrappata alle recinzioni metalliche come uno straccio sporco.
La donna che scese dall’auto non sembrava niente di speciale. Indossava una felpa blu scuro scolorita da troppi lavaggi, jeans un po’ troppo larghi e scarponcini consumati, fatti per camminare, non per farsi notare. Portava una sola borsa a tracolla.
Il militare di guardia alla garitta, un caporale giovane che stava chiaramente perdendo la battaglia contro il sonno, non si alzò nemmeno. Fece scorrere il vetro quel tanto che bastava per allungare la mano.
«Documento.» borbottò, con gli occhi fissi su una piccola TV che trasmetteva gli highlights di una partita.
La donna gli porse un tesserino di plastica.
Lea Moretti. Supporto Amministrativo. Trasferimento civile.
Il caporale diede un’occhiata al documento, poi a lei. Vide una donna sulla quarantina, forse qualcosa di meno. Niente trucco. Occhiaie leggere. Occhi azzurri che sembravano guardare dritto oltre il vetro fumé della garitta, ma lui non ci fece caso. Per lui era solo un’altra impiegata civile, un trasferimento di basso livello.
«Logistica, eh?» ridacchiò, lanciandole il badge come fosse un sottobicchiere. «In bocca al lupo, signora. Le ultime tre sono scappate prima di finire il periodo di prova. Spero le piaccia affogare nella carta.»
«Sono abbastanza brava a nuotare.» rispose Lea. La sua voce era bassa, un po’ roca, come ghiaia sotto acqua calma.
Il caporale rise, una risata vuota. «Lo dicono tutti.» Le fece cenno di passare.
Lea Moretti attraversò il cancello senza voltarsi. Non lo corresse. Non gli disse che il “nuoto” a cui era abituata consisteva nel far muovere gruppi navali attraverso tempeste nel Mediterraneo orientale e in missioni complicate all’estero. Non accennò al fatto che, nella borsa che portava sulla spalla, c’era anche una divisa bianca con due stelle sulla mostrina e una fila di nastrini che avrebbe fatto invidia a una grossa unità da guerra.
Per la Base di Porto Vigile, lei non era nessuno. Ed era esattamente quello che le serviva.
L’edificio del comando odorava di caffè vecchio e disillusione. Un cubo grigio, severo, che sembrava pensato per risucchiare l’energia di chiunque ci entrasse.
Lea fece il check-in alla reception. Il sottufficiale al bancone, un certo Caruso, era al telefono per una chiamata personale. La fece aspettare quattro minuti interi prima di sbuffare, riattaccare e registrare il suo tesserino nel sistema.
«Terzo piano.» mormorò Caruso, indicando l’ascensore con il pollice. «Ufficio del Colonnello Reina. Non si aspetti nessun comitato di benvenuto. È di cattivo umore. È sempre di cattivo umore.»
«Grazie.» disse Lea.
Caruso stava già digitando sul cellulare.
Quando arrivò al terzo piano, l’aria era pesante. Non era rabbia: era stanchezza. Stanchezza vecchia, sedimentata, che ristagnava come umidità nei corridoi.
Trovò la porta del Colonnello Davide Reina aperta. Lui era piegato sulla scrivania, metà sotto una montagna di fascicoli. Sembrava un uomo che reggeva il soffitto con le spalle. Non alzò nemmeno lo sguardo quando Lea bussò.
«Se è il rapporto sulla prontezza operativa, lo può pure bruciare.» disse al vuoto. «Tanto sono tutte bugie.»
«Trasferimento che si presenta per il servizio, signor Colonnello.» disse Lea.
Reina smise di scrivere. Alzò gli occhi. Vide la felpa, i jeans, l’assenza di saluto – appropriata per una civile, ma comunque fastidiosa per lui.
«Giusto. La nuova.» Si stropicciò le tempie. «Moretti, vero?»
«Sì, signore.»
«Senta, Moretti, non ho tempo per discorsi motivazionali. La logistica è in fondo al corridoio, stanza 23. La sua responsabile è il Maggiore Valle. Sta cercando di fare un miracolo con un budget pari a zero. Non le intralci il lavoro. Faccia quello che le dicono. E per favore, se non sa fare qualcosa, chieda. L’ultima cosa che mi serve è un altro errore di inventario che ci attira un’ispezione.»
«Conosco il sistema di richieste materiali, signore.» disse Lea.
Reina fece un verso cinico. «Tutti credono di conoscerlo, finché il sistema non li divora vivi. Vada. Stanza 23.»
La congedò con un cenno di penna. Non vide il modo in cui gli occhi di Lea scorrevano veloci sulla sua scrivania: protocolli di comunicazione vecchi, report di manutenzione segnati in rosso, una tazza con scritto “Miglior Papà” scheggiata sul bordo. Stava costruendo un quadro mentale, dettaglio dopo dettaglio.
La stanza 23 era una sinfonia caotica di telefoni che squillavano e voci che urlavano.
«Non mi interessa cosa c’è scritto sul manifesto, Cole! I pezzi non sono arrivati!» gridava una donna al telefono, al centro della stanza, come il capitano su una nave che imbarca acqua.
Quella era il Maggiore Grazia Valle. Tagliente, energica, chiaramente allo stremo. I capelli raccolti in uno chignon disordinato, le dita macchiate d’inchiostro.
Lea rimase sulla soglia per un minuto intero, osservando in silenzio. Vedeva subito il flusso di lavoro. Il problema non erano le persone: era il processo. Tutto passava da un server centrale che arrancava, costringendo tutti a interventi manuali, gli stessi che generavano gli errori di cui aveva paura il Colonnello Reina.
«Signora?» disse Lea, facendo un passo avanti.
Valle sbatté giù la cornetta e si voltò di scatto. «Che c’è? Chi… ah. Il trasferimento.» Inspirò profondamente, cercando di rimettersi a fuoco. «Moretti?»
«Sì, signora.»
«Si prenda una scrivania. Qualsiasi scrivania non sommersa da cartacce e cibo. Il suo login è su un post-it attaccato al monitor. Abbiamo trecento richieste arretrate solo per l’autorimessa. Cominci a verificare i numeri di serie.»
«Subito.»
Lea andò a sedersi in un angolo. Mentre avviava il computer, un sergente alla scrivania vicina – sulla targhetta c’era scritto Briganti – si piegò indietro sulla sedia con un sorrisetto.
«Carne fresca.» sussurrò al collega, abbastanza forte perché Lea sentisse. «Scommetto che piange prima di pranzo.»
«Cinque euro che non arriva a dopodomani.» ridacchiò l’altro.
Lea non si scompose. Il sistema era vecchio, l’interfaccia sembrava uscita dagli anni Novanta. Inserì le sue credenziali provvisorie.
Non si limitò a verificare numeri di serie. Mentre lavorava, iniziò a seguire le tracce digitali degli errori. Vedeva il disegno. Il sistema non era solo lento: smistava male i codici di priorità perché qualcuno, mesi prima, aveva impostato in modo sbagliato la variabile “urgente” nel database locale.
Avrebbe potuto correggere tutto in dieci secondi con i suoi codici di override. I codici di un Ammiraglio.
Invece aprì il modulo di inserimento manuale. Si voltò verso il marinaio vicino a lei, un ragazzo di appena vent’anni, sulla targhetta c’era scritto Turelli, il viso teso come se stesse per avere un attacco di panico.
«Ehi.» mormorò Lea.
Turelli sobbalzò. «Sì?»
«Il sistema blocca tutto quello che ha un trattino nel codice del pezzo.» disse. «Se togli i trattini e metti uno spazio, te lo approva.»
Turelli la guardò, confuso. «Come fa a saperlo? Io sono qui da sei mesi e…»
«Prova.» disse soltanto Lea.
Lui provò. Lo schermo lampeggiò in verde. APPROVATO.
La bocca di Turelli si spalancò. «Ma… ma così mi ha salvato due ore di lavoro.»
«Teniamolo per noi.» gli fece l’occhiolino Lea. «Se no pensano che barare sia diventata la norma.»
Alla fine della settimana, la “Nuova” era diventata un fantasma nel sistema. Parlava poco. Portava caffè. Prendeva i fascicoli che nessuno voleva. Ma iniziarono a succedere cose strane: l’arretrato cominciò a diminuire, le pratiche che di solito sparivano nel nulla venivano approvate, i magazzini sembravano meno nel caos.
Il trattamento però non cambiò.
Nella saletta relax, Lea stava scaldando una tazza di noodles istantanei quando entrarono due piloti. Erano rumorosi, sicuri di sé, con le tute di volo che da sole costavano più della sua macchina.
«Hai visto la nuova esercitazione di prontezza?» rise il primo. «Una barzelletta. Chi l’ha pensata non ha mai messo piede su un aereo. Sicuro qualche burocrate dietro una scrivania a Roma.»
«Già.» annuì l’altro, versandosi il caffè proprio davanti a Lea, costringendola a fare un passo indietro. «Permesso, signora. Passano i piloti.»
Lea fece un passo da parte. Vide il piano di volo che spuntava dalla tasca del pilota. Lo riconobbe. Lei stessa aveva contribuito a scrivere quella strategia qualche anno prima, per esercitazioni in condizioni di scarsa visibilità, proprio quelle che avevano salvato vite in missioni reali.
«In realtà,» disse con voce tranquilla, «le traiettorie sono così strette perché simulano un ambiente con i radar disturbati. Se volate con la curva standard, vi accendete come un albero di Natale sugli schermi del nemico.»
Il silenzio nella stanza fu immediato.
Il pilota si voltò lentamente, squadrandola da capo a piedi. «Scusi? Lei è… logistica, giusto? Conta scatoloni?»
«Era solo un’osservazione.» disse Lea, mescolando i noodles.
«Si occupi delle scatole, cara.» disse con disprezzo il pilota. «Lasci volare chi sa quello che fa.»
Uscirono ridendo.
Lea fissò la sua tazza. Le dita stringevano così forte la forchettina di plastica che questa si spezzò. Inspirò a fondo, contò fino a tre e buttò il manico nel cestino.
Non ancora, si disse. Non ancora.
Il punto di svolta arrivò in mezzo al grasso e all’odore d’olio dell’autorimessa.
Il Maggiore Valle aveva mandato Lea a farsi firmare un documento dal Maresciallo Capo Rinaldo Coletti. Coletti era una leggenda in base. Un omone con il grasso motore incrostato per sempre sotto le unghie e un odio per gli ufficiali a un passo dall’insubordinazione.
Quando Lea arrivò, lui era sotto un grosso mezzo tattico.
«Maresciallo Coletti?»
«A meno che non mi porti una trasmissione nuova per questo rottame, può anche tornare da dove è venuta.» rispose la voce da sotto il telaio.
«Le porto il modulo per farle arrivare quella trasmissione.» disse Lea.
Coletti uscì lentamente su un carrellino a rotelle. Si asciugò le mani su uno straccio, studiandola con sospetto. «Lei è la nuova. Quella che Turelli dice che fa magie col computer.»
«Ho solo letto il manuale, Maresciallo.»
«Senta,» disse lui, alzandosi in piedi e superandola di una buona testa, «io questo modulo non lo firmo. C’è scritto “Consegna prevista: due settimane”. È una bugia. È sempre sei settimane. Se firmo, dico al mio Comandante che i mezzi saranno pronti in due settimane. Quando non lo saranno, le stellette non gliele strappano a voi in ufficio, le strappano a me. Sono stufo di coprire le vostre balle.»
«Capisco.» disse Lea. Non arretrò di un centimetro. Si avvicinò al mezzo, guardando il motore smontato. «È la scatola di trasmissione, vero? La guarnizione salta sempre sulla valvola di scarico perché la pressione è tarata per l’autostrada, non per il fuoristrada.»
Coletti rimase con lo straccio in mano, immobile. «Scusi?»
«Non le serve una trasmissione nuova.» continuò Lea, girando attorno al veicolo. «Le serve il kit di guarnizioni della versione pesante. Codice 77-Bravo-Delta. Ne abbiamo sei in magazzino, nel settore “obsoleto”, perché nessuno ha aggiornato il sistema per indicarli compatibili con i modelli nuovi.»
Tutta l’autorimessa si fermò. I meccanici smettevano di lavorare uno dopo l’altro, ascoltando.
«Mi sta dicendo,» mormorò Coletti, con la voce improvvisamente bassa, «che ho tre mezzi fermi da un mese e i pezzi sono a cinquecento metri da qui?»
«Le sto dicendo,» rispose Lea, guardandolo dritto negli occhi, «che se firma questo modulo, vado io stessa in magazzino, prendo i kit e glieli porto entro un’ora. Stasera quei mezzi camminano.»
Coletti cercava il minimo segno di menzogna nel suo sguardo. Non ne trovò.
Afferò la cartellina, firmò con uno scarabocchio furioso e gliela restituì. «Un’ora. Se non torna, non si faccia più vedere nella mia autorimessa.»
Lea tornò in quarantacinque minuti, con la scatola pesante portata a mano.
Coletti aprì il cartone. Guardò i pezzi. Guardò Lea. Per la prima volta da anni, la smorfia dura gli lasciò il viso.
«Lei… l’ha fatto davvero.»
«Io faccio il mio lavoro, Maresciallo.» disse Lea, pulendosi la polvere dalla felpa. «Adesso può fare il suo.»
Mentre se ne andava, Coletti si girò verso la sua squadra. «A lei non la tocca nessuno. Avete capito? Nessuno.»
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