Da “Volare” ai portici di Bologna: un nonno, tre studenti, una seconda vita

E questa è la parte dopo, quella che non finisce in tre minuti di coro e braccia sulle spalle, ma comincia la mattina seguente, quando ti svegli e scopri che il mondo ti ha messo in tasca.

Mi sono alzato presto, come sempre, con le ginocchia che facevano i commenti sul meteo prima ancora che aprissi la finestra. In cucina ho trovato Leonardo addormentato sul divano, il telefono ancora in mano, e Miriam che fissava lo schermo come se stesse guardando una partita ai rigori.

«Franco», ha detto piano, «tu stanotte… sei esploso.»

Io ho sbadigliato e ho guardato il mio cellulare. Notifiche, numeri, cuori, faccine che piangono, gente che mi chiamava “nonno” senza conoscermi. A un certo punto ho visto un messaggio che diceva: “Grazie. Mio padre è morto da poco. Sentirti cantare mi ha fatto respirare.”

Ho posato il telefono sul tavolo, come se scottasse. Perché una cosa è essere visto, un’altra è essere sentito davvero, anche da chi non hai mai incontrato.

Giacomo è entrato in cucina con i capelli in battaglia e gli occhi gonfi di sonno. Ha annusato l’aria e ha detto:

«Caffè?»

«Caffè», ho risposto. «E poi mi spiegate perché mi chiamano “leggenda”. Io fino a ieri ero solo uno che lavava i piatti.»

Loro ridevano, ma era una risata strana, un po’ felice e un po’ nervosa. Come quando apri una porta e dietro non sai se c’è un regalo o una corrente d’aria che ti butta giù.

Dopo mezz’ora ha suonato il citofono. E non era il postino, né il vicino che si lamenta del bidone della differenziata messo male.

Era Riccardo.

Ho sentito la sua voce metallica dalla cornetta, tesa come una corda: «Papà. Apri. Subito.»

Ho guardato Miriam. Ho guardato Giacomo. Ho guardato Leonardo. Poi ho aperto.

Riccardo è entrato con la faccia di uno che ha guidato troppo, dormito poco e immaginato il peggio. Aveva addosso la giacca sbagliata per l’ansia, quella buona, come se fosse venuto a recuperare un oggetto prezioso. Dietro di lui c’era Carla, con lo sguardo già pronto a dire “te l’avevo detto,” anche senza parole.

«Papà», ha fatto Riccardo, «hai idea di quello che hai combinato?»

Io ho alzato le spalle. «Ho cantato. È vietato?»

«Non fare il brillante.» Si è fermato e ha guardato l’appartamento: scarpe, libri, una padella in ammollo, un poster attaccato storto, il caos onesto della vita. «Tu sei… qui. Con loro. E adesso sei anche su tutti i telefoni del paese.»

Carla ha sospirato, già stanca. «Franco, non capisci. La gente commenta. La gente si presenta. La gente… si approfitta.»

Io ho indicato il tavolo. «Sedetevi. Vi faccio un caffè. E poi mi dite dov’è la tragedia.»

Riccardo non si è seduto subito. Guardava i ragazzi come se fossero un esperimento sociale che poteva finire male, e i ragazzi facevano la faccia di chi sta per essere interrogato dal preside senza sapere cosa ha fatto.

Miriam, che di coraggio ne ha più di quanto si vede, ha detto:

«Signor Riccardo, noi paghiamo l’affitto. E Franco… è più in forma di noi. Ieri mi ha insegnato a non farmi prendere in giro quando porto la bici dal meccanico.»

«Non è questo», ha tagliato lui. «È che non è normale.»

Io ho appoggiato le tazze sul tavolo con calma. «Riccardo, lo sai cosa non era normale? Io seduto in una casa grande a sentire il frigorifero come se fosse un compagno di stanza. Quello non era normale. Quello era… sparire senza che nessuno se ne accorgesse.»

La parola “sparire” gli ha fatto male, l’ho visto. Ha serrato la mascella e ha abbassato lo sguardo, come se avesse incontrato una colpa che non voleva guardare in faccia.

«Io ti controllo perché ho paura», ha detto piano. «Non perché voglio comandarti. Da quando mamma… da quando Sabina non c’è più, io… ho paura di perderti così, all’improvviso. E quando ho visto quel puntino blu alle due di notte… mi è mancato l’aria.»

Non ho riso, stavolta. Perché quando un figlio ha paura, anche se lo fa male, non è uno scherzo.

Mi sono seduto di fronte a lui. «Riccardo, io non sono un pacco fragile. E tu non sei un guardiano. Siamo due persone che si vogliono bene e che non sanno più bene come farselo vedere.»

Carla si è mossa sulla sedia. «Va bene. Però questa cosa della casa condivisa… Franco, almeno prometti che se stai male…»

«Prometto», ho detto. «Ma promettete anche voi che non mi chiudete in una quiete “sensata” come se fosse una medicina.»

Ci siamo guardati. E lì, per la prima volta da mesi, ho sentito che parlavamo davvero, senza frasi pronte.

Proprio in quel momento ha suonato di nuovo il citofono.

Leonardo ha fatto una smorfia. «Oddio. Se è un altro…»

Ho risposto io. Una voce sconosciuta, troppo entusiasta: «Buongiorno! Scusi, è qui che vive… il signore di “Volare”?»

Ho chiuso gli occhi un secondo. E ho capito che Carla non aveva tutti i torti.

Ho aperto, ma non del tutto. «Chi è?»

«Mi chiamo Elena», ha detto la voce. «Ho visto il video. Mio nonno cantava sempre quella canzone. Posso… posso solo dirgli grazie?»

Ho esitato. Poi ho guardato Riccardo. E Riccardo, senza parlare, ha fatto un piccolo cenno con la testa, come a dire: “Va bene. Ma con giudizio.”

Sono sceso. Era una donna sui quarant’anni, con un sacchetto di carta tra le mani e gli occhi lucidi. Dentro c’era una torta fatta in casa, storta e bellissima, come le cose vere.

«Non voglio disturbare», ha detto subito. «Solo… mi ha ricordato che una casa non è solo un posto. È una voce. E io quella voce l’ho persa.»

Le ho preso il sacchetto con delicatezza. «Grazie. Ma sa cosa le dico? Se una voce l’ha persa, provi a cantarla lei. Non serve essere intonati. Serve essere vivi.»

Lei ha riso piangendo, che è un modo strano e giusto di stare al mondo, e se n’è andata.

Quando sono risalito, Riccardo aveva la faccia di uno che sta vedendo qualcosa che non aveva previsto. Non era più “mio padre è impazzito.” Era “mio padre… serve a qualcuno.” E questa cosa gli dava fastidio e sollievo insieme.

«Ecco», ha detto Carla. «Così. Una torta oggi. Domani qualcuno ti suona alle tre di notte.»

Giacomo, che fino a quel momento era stato zitto, ha detto:

«Possiamo mettere una regola. Tipo… non si apre a nessuno. E se qualcuno vuole parlare con Franco… lo fa quando ci siamo noi.»

Miriam ha annuito. «E magari… non diciamo in giro l’indirizzo. E tu, Franco, non rispondi a tutti i messaggi come se fosse un turno al pronto soccorso.»

Io ho sollevato le mani. «Va bene. Mi arrendo. Ma sappiate che ignorare la gente mi viene difficile. Ho passato due anni a sognare che qualcuno bussasse.»

Riccardo si è schiarito la gola. «Papà… fammi vedere come vivi, davvero. Non la versione da video. Quella vera.»

Così gli ho fatto vedere le cose piccole. Il barattolo in cucina con scritto “emergenza”, il mio quaderno dove segno le spese perché mi piace ancora la carta, la playlist “I pezzi di Franco” che io ascolto di nascosto come un ragazzino.

Gli ho mostrato anche la mia parte meno eroica: le pillole in fila, il promemoria sul frigo per ricordarmi l’appuntamento dal medico, la torcia vicino al letto perché a volte la notte mi alzo e non voglio inciampare.

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