Da “Volare” ai portici di Bologna: un nonno, tre studenti, una seconda vita

Riccardo guardava e respirava, come se ogni dettaglio gli rimettesse in ordine un pezzo di cuore.

Poi è arrivato il martedì di Giacomo. Quello del colloquio.

Era seduto al tavolo con la cravatta in mano, come se fosse un serpente. Le dita gli tremavano.

«Non ci riesco. Mi viene un colpo.»

Io ho preso la cravatta. «Non esagerare. Respira: qui si tratta solo di fare un nodo decente.»

Riccardo, senza nemmeno pensarci, si è avvicinato. «Aspetta», ha detto. «Te lo faccio vedere io. In ufficio ne ho fatti mille.»

E così mio figlio, in una cucina piena di piatti e speranze, ha insegnato a un ragazzo che non è suo come si fa un nodo di cravatta. Io guardavo quella scena e sentivo qualcosa sciogliersi, come un ghiaccio vecchio.

Giacomo, quando si è visto allo specchio con quel nodo finalmente dritto, ha sussurrato: «Grazie.» E poi, quasi vergognandosi: «A tutti e due.»

Quel pomeriggio, mentre Giacomo era fuori, è arrivata una chiamata da un numero sconosciuto.

«Buongiorno, signor Franco», ha detto una voce gentile. «Siamo un’associazione di quartiere, organizziamo una serata comunitaria sotto i portici. Abbiamo visto il video. Le andrebbe di partecipare? Nulla di televisivo, nulla di spettacolare. Solo… una serata per far incontrare persone.»

Io ho guardato Miriam, che aveva già gli occhi accesi. Leonardo stava già digitando idee sul telefono. Riccardo, sorprendentemente, non ha detto no.

Ho chiuso il microfono con la mano. «Che ne pensi?» ho chiesto a mio figlio.

Riccardo ha inspirato. «Penso che se fai questa cosa… la fai bene. Con regole. Con qualcuno accanto. E…» Ha esitato. «E magari ci vengo anch’io.»

Quella frase mi ha colpito più di qualsiasi visualizzazione. Perché significava: non ti porto via dalla tua vita. Ci entro.

La settimana dopo abbiamo organizzato tutto con una semplicità quasi commovente. Un salone di quartiere prestato, sedie spaiate, luci calde, un microfono che gracchiava un po’, gente che arrivava con torte, teglie, biscotti, e quell’aria da “non so se ho il coraggio, ma sono qui.”

L’abbiamo chiamata “Serata dei Portici.” Niente nomi furbi, niente slogan. Solo un posto dove stare insieme senza sentirsi ridicoli.

Io ero dietro le quinte, che poi erano solo un angolo con un attaccapanni. Mi tremavano le mani come la prima volta.

Miriam mi ha sistemato il colletto. «Franco, stasera non devi dimostrare niente. Devi solo essere quello che sei.»

Leonardo mi ha dato un bicchiere d’acqua. «E se ti emozioni, va bene. Se stoni, va bene. Se piangi… piangiamo anche noi.»

Giacomo è arrivato all’ultimo, col viso acceso. «Ho preso il lavoro», ha detto in un soffio.

La stanza è esplosa in un applauso spontaneo, come se quella vittoria fosse di tutti. Io l’ho abbracciato e ho sentito quel corpo giovane che tremava di sollievo.

Riccardo era lì, in fondo, in piedi vicino a Carla. Sembrava fuori posto eppure presente. Quando mi ha visto guardarlo, ha alzato una mano in un gesto piccolo, quasi timido.

Poi hanno chiamato il mio nome.

Sono salito sul piccolo palco. Ho guardato la sala: studenti, coppie, una signora anziana con un bastone, un uomo con gli occhi duri che già si asciugava le lacrime come se fosse arrabbiato con se stesso. E ho capito che non era una serata su di me. Era una serata su quel punto fragile che abbiamo tutti: il bisogno di essere chiamati per nome.

Ho preso il microfono. «Io mi chiamo Franco. Ho settantaquattro anni. E ho imparato tardi una cosa semplice: il silenzio non è sempre pace. A volte è solo… assenza.»

Ho respirato. «Questa canzone la conoscete. E se qualcuno non la conosce, finga. È più facile così.»

Qualcuno ha riso. E quel riso ha sciolto la paura.

Ho iniziato “Volare” piano, senza teatrini. La voce era quella che era: ruvida, vera, con gli anni dentro. E poi, come l’altra volta, è successo.

Prima una voce, poi due, poi un pezzo di sala, poi tutti.

Riccardo cantava. Non bene, ma cantava. E Carla, che di solito tiene tutto sotto controllo, cantava anche lei e rideva mentre lo faceva, come se le fosse scappata una parte giovane che aveva dimenticato.

Quando abbiamo finito, non c’è stato quel silenzio pesante. C’è stato un silenzio buono, pieno, come dopo una preghiera laica. Poi qualcuno ha detto: «Grazie.» E un altro: «Ne facciamo un’altra?»

Io ho guardato i miei ragazzi. Ho guardato mio figlio. E ho capito che quello era il mio lieto fine: non una soluzione perfetta, ma una porta aperta.

Alla fine della serata, mentre ripiegavamo le sedie, Riccardo mi si è avvicinato. Aveva gli occhi rossi, ma non scappava.

«Papà», ha detto, «posso chiederti una cosa?»

«Dimmi.»

«Io posso smettere di controllarti ogni cinque minuti? Ma tu mi mandi un messaggio quando rientri la notte? Non per controllo. Solo… per respirare.»

Ho annuito. «Affare fatto. E tu, ogni tanto, vieni a cena. Non da figlio in missione. Da persona.»

Carla ci ha guardati e, per una volta, non ha avuto niente da aggiungere. Ha solo detto: «Va bene. Però la minestra di patate la voglio assaggiare anche io.»

Sono tornato a casa con i ragazzi, sotto i portici umidi, Bologna che ti fa compagnia anche quando non la chiedi. Nell’appartamento c’era il solito disordine, ma quella notte mi è sembrato quasi elegante.

Prima di andare a dormire, ho aperto la finestra un attimo. Ho respirato l’aria fredda e ho pensato a Sabina, non con quella fitta che ti schiaccia, ma con una dolcezza nuova.

Ho mandato un messaggio a Riccardo: “Sono a casa. Buonanotte.” E lui ha risposto subito: “Buonanotte, papà. E… grazie.”

Ho posato il telefono. In corridoio Miriam rideva al telefono con qualcuno, Leonardo trafficava in cucina, Giacomo ripeteva a bassa voce le frasi del nuovo lavoro come una preghiera moderna.

E io, nel mezzo di quel rumore, ho capito una cosa semplice e enorme: non serve diventare famosi per sentirsi vivi. Serve sentirsi necessari a qualcuno, anche solo per insegnargli un nodo di cravatta o per cantare una canzone che ti riporta a casa.

Se sei arrivato fin qui, allora forse lo sai anche tu. La vita non chiede un posto perfetto. Chiede presenza. Chiede voce.

E ogni tanto, quando ti sembra di essere solo, basta un puntino blu che lampeggia nel posto “sbagliato” per ricordarti che, invece, sei ancora qui. E che finché puoi, vale la pena cantare.

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