Divorziata, senza casa e nel cassonetto: la frase di una sconosciuta ha riscritto per sempre la mia vita

Invece, andò nello studio e tornò con una busta.

«Ce n’è un’altra» disse. «Questa è indirizzata a entrambi.»

Ci sedemmo sul divano e la aprimmo insieme.

«A Jacopo e Sofia,
se leggete questa lettera insieme, vuol dire che il mio piano ha funzionato meglio di quanto osassi sperare.

Jacopo, sei stato per me il figlio che non ho avuto.
Sofia, sei sempre stata la figlia che la vita mi ha regalato.

Non potrei immaginare custodi migliori per questo studio, né compagni migliori l’uno per l’altra.

Costruite qualcosa di bello, dentro e fuori gli edifici.
E vi prego, qualunque cosa facciate, non chiamate nessun figlio “Teodoro”.
Quel nome muore con me, e va bene così.

Con tutto il mio affetto,
T.»

Scoppiammo a ridere e a piangere nello stesso momento.
Lo vedevo quasi, con il suo sorriso storto, mentre firmava quella frase.


Il matrimonio fu sei mesi dopo, sul tetto del palazzo, nello stesso giardino pensile che Teodoro aveva disegnato decenni prima.

Non era una cerimonia da riviste patinate.
C’erano circa cento persone: borsisti ed ex borsisti, colleghi, amici di Teodoro, vicini, qualche parente lontano.

Emma era la mia testimone. Quando gliel’avevo chiesto, era rimasta a bocca aperta.

«Io?» aveva balbettato. «Ma… io sono arrivata qui grazie a te.»

«Sei qui grazie al tuo lavoro» le avevo risposto. «Io ho solo aperto una porta. Il resto l’hai fatto tu.»

Margherita piangeva dall’inizio alla fine, con in mano un fazzoletto che Teodoro aveva fatto mettere da parte “per il giorno in cui Sofia si sposerà come dico io, non come dicono gli altri”.

Le promesse di Jacopo furono semplici.

«Sofia, tu mi hai insegnato che un vero partner non occupa spazio altrui, ma lo amplia.
Prometto di non chiuderti mai in nessuna gabbia, di discutere con te, di contraddirti quando servirà, ma sempre dalla tua parte.
Prometto di ricordarti, ogni volta che lo dimenticherai, chi sei davvero.»

Le mie uscirono tra lacrime e risate.

«Jacopo, quando ci siamo conosciuti, ero convinta di essere rotta.
Tu non mi hai “aggiustata”.
Mi hai mostrato che non ero rotta, solo compressa.

Grazie per essere l’uomo che non ha paura di una donna intera.
Ti prometto che non smetterò mai di costruire – edifici, idee, vita – accanto a te.»

Ballammo sotto le lucine, con Milano tutt’intorno.
La troupe della serie tornò solo per qualche ripresa di chiusura, una sorta di epilogo. Non per la favola d’amore, ma per quello che sarebbe venuto dopo.

Perché il “dopo” era il vero progetto.


Con il fondo da trenta milioni e una parte degli utili annuali dello studio, nacque l’Iniziativa Rinaldi per lo Spazio Pubblico.

L’idea era semplice e radicale: progettare e realizzare biblioteche, centri civici, spazi comuni con la stessa cura che di solito si riserva agli hotel di lusso.

Il primo progetto fu una biblioteca di quartiere a Napoli, in una zona che i giornali nominavano solo per cronaca nera.
Emma fu nominata progettista principale, affiancata da un team misto di giovani e senior.

La vidi presentare il progetto a una assemblea di residenti:
piani alti di scaffali, ma anche cortili interni verdi, laboratori, un piccolo auditorium aperto alle associazioni locali.

«Non verrà calato dall’alto» diceva. «Lo costruiamo con voi.
Vogliamo che i vostri figli lo sentano come casa, non come qualcosa di estraneo.»

Quando la biblioteca aprì, un anno dopo, i bambini correvano tra i tavoli, gli anziani leggevano i giornali seduti alla luce naturale, i ragazzi facevano i compiti in sala studio invece che per strada.
Era solo un edificio, e allo stesso tempo, non era “solo” un edificio.

Altri progetti seguirono:
un centro polifunzionale a Bari, una piazza coperta con biblioteca e ludoteca in un paese dell’Appennino, il recupero di una fabbrica dismessa a Torino trasformata in spazi culturali e sociali.

Ogni volta che tagliavamo un nastro, pensavo a Teodoro e a Eleonora.
E al fatto che, in fondo, stavamo portando avanti sogni che loro non avevano avuto il tempo di realizzare.


Cinque anni dopo il giorno del cassonetto, ricevetti una telefonata dal Politecnico.

«Ingegner Rinaldi, vorremmo che tenesse il discorso di laurea per la nostra facoltà di Architettura» disse il direttore. «La sua storia è diventata un punto di riferimento per molti studenti.»

Accettai, con un nodo alla gola.

Quel giorno, guardando il mare di togi e tocchi in aula magna, mi rividi seduta lì, anni prima, piena di certezze sbagliate.

«Quando mi sono laureata» iniziai, «ero convinta di sapere dove sarei stata cinque anni dopo.
Avevo un piano preciso: studio di mio zio, concorsi internazionali, progetti all’estero.

Nel giro di un anno, ho buttato tutto nel cestino per un amore che credevo mi avrebbe completata.
Invece mi ha cancellata, un pezzetto alla volta.»

Raccontai senza dettagli morbosi il matrimonio, la gabbia dorata, il divorzio, il cassonetto, Teodoro, lo studio.

«Per dieci anni mi sono detta: “Ho sprecato la mia vita”.
Adesso vi dico una cosa che avrei voluto sentirmi dire allora:

non potete davvero perdervi.
Potete dimenticarvi di voi, per un po’. Potete mettere voi stessi in una scatola e chiuderla in un ripostiglio.

Ma ciò che siete davvero resta lì, in attesa che lo andiate a riprendere.

Voi siete architetti.
Siete abituati a guardare una rovina e immaginare che cosa potrebbe diventare.
Fatelo anche con voi stessi.

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