Divorziata, senza casa e nel cassonetto: la frase di una sconosciuta ha riscritto per sempre la mia vita

Capivo benissimo quella filosofia.
Da ragazza, Teodoro era stato identico con me.

Il computer emise un segnale.
Una mail.
Mittente: Carminati.
Oggetto: “Nuova procedura approvazione progetti”.

«A partire da ora» lessi ad alta voce, «tutte le decisioni di design dovranno essere approvate dal consiglio di amministrazione prima di essere presentate ai clienti.»

Guardai Jacopo.
«Non è così che lavorava mio zio.»

«No» confermò lui. «Teodoro si fidava dei suoi progettisti. Questo è un tentativo di toglierle potere.»

Aprii “Rispondi a tutti”.

«Questa nuova procedura viene respinta» scrissi. «Rinaldi Architettura ha avuto successo perché si è sempre fidata della competenza dei propri architetti. L’approvazione del consiglio è necessaria solo per i progetti che superano i dieci milioni di euro, come previsto dallo statuto.»

Inviai.
Le sopracciglia di Jacopo si sollevarono.
«L’ha appena fatto sembrare ridicolo davanti a tutti.»

«Bene. Riccardo ha passato dieci anni a farmi dubitare di ogni mia decisione. Ho finito di chiedere il permesso a uomini abituati a comandare.»

Pochi minuti dopo arrivò una richiesta di incontro “privato” da parte di Carminati. Accettai, ma con Jacopo presente.

Quando entrò, il suo sguardo era gelido.

«Signorina Rinaldi, sto solo cercando di proteggere la reputazione dello studio» iniziò.

«Scavalcando le procedure e cercando di aggirare l’amministratrice delegata?» ribattei. «Un metodo curioso.»

«Sua zio mi ha lasciato il trenta per cento dello studio. Sono qui da ventitré anni. Non permetterò che lei distrugga ciò che abbiamo costruito.»

Mi appoggiai allo schienale della poltrona di Teodoro.
«Chiariamo una cosa. Mio zio mi ha lasciato il controllo. Può scegliere se lavorare con me o contro di me. Se sceglie la seconda opzione, perderà.

Le suggerisco di passare il fine settimana a riflettere con attenzione su quale scelta serva meglio ai suoi interessi.»

Quando se ne andò, Jacopo fischiò piano.
«Da dove è saltata fuori quella sicurezza?»

Le mani mi tremavano appena, ma sorrisi.
«Da tre mesi passati a mangiare cibo freddo in un magazzino e a rovistare nei cassonetti. Ho deciso che, se devo fallire, lo farò alle mie condizioni.

E, lo ammetto, ho passato qualche notte a guardare serie tv sulle lotte di potere nelle aziende di famiglia. Ho imparato due o tre cose.»


Quella sera, girando da sola per gli uffici, aprii gli armadi del vecchio studio di Teodoro.

In uno scaffale trovai diverse cartelline con il mio nome, ordinate per anno.

Dentro c’erano copie dei miei elaborati universitari, ritagli di giornale sul mio matrimonio, foto di me e Riccardo a varie cerimonie. In ogni foto il mio sorriso diventava, anno dopo anno, più tirato.

Nell’ultima cartellina c’erano ritagli su un solo argomento: il mio divorzio.
Articoli che parlavano di come fossi “rimasta senza nulla”, copie delle sentenze che mostravano quanto male me la fossi cavata.

Sotto i documenti, piegata con cura, c’era una lettera scritta a mano da Teodoro, datata due mesi prima della sua morte.


«Sofia,
se stai leggendo questa lettera, significa che finalmente sei tornata a casa.

Mi dispiace di essere stato testardo. Avrei dovuto chiamarti mille volte. Ma ero ferito dal fatto che avessi scelto così male. E quando alla fine ho ingoiato l’orgoglio, era passato troppo tempo.

Ti ho vista rimpicciolirti, anno dopo anno.
Volevo intervenire, ma Margherita mi ha convinto che dovevi trovare da sola l’uscita.

Aveva ragione. Dovevi essere tu a scegliere di andartene.

Questa azienda è sempre stata pensata per te.
Da quando sei arrivata da me a quindici anni e ti ho trovata a studiare le mie tavole, ho capito che saresti stata la mia erede. Non perché sei famiglia, ma perché sei brillante.

Nel tuo studio c’è qualcosa di speciale nel cassetto in basso a destra dell’armadio metallico. Usalo con intelligenza.

E, Sofia, sono orgoglioso di te. Lo sono sempre stato, anche quando ero troppo testardo per dirtelo.

T.»


Tornai al palazzo quasi barcollando, con la lettera stretta in mano.

Nel quinto piano, cercai l’armadio metallico.
Il cassetto in basso a destra era chiuso a chiave, ma sotto il bordo inferiore, fissata con del nastro, trovai una piccola chiave.

Dentro c’erano diciassette raccoglitori in pelle, ognuno con un anno scritto sul dorso.
Erano i progetti di Teodoro: schizzi, bozze, tentativi, idee scartate. Non le versioni pulite dei libri, ma il processo vero. Errori, pentimenti, note su ciò che funzionava e ciò che no.

Era storia dell’architettura, nuda e cruda.

Nell’ultimo raccoglitore c’era un altro foglio.

«Questi sono i miei fallimenti.
Le strade sbagliate, le idee orribili che poi sono diventate buone.

Te li lascio perché i giovani architetti devono vedere che anche chi è considerato “un grande” ha lottato, sbagliato, ricominciato.
Usali per insegnare, per ispirare, per ricordarti che il genio non nasce finito. Si costruisce, schizzo dopo schizzo, proprio come stai ricostruendo te stessa ora.

Con affetto,
T.»

Lessi e rilessi quelle righe piangendo in silenzio nello studio illuminato solo dalle luci della città.

Entro mattina avevo un’idea.

La mattina dopo, quando Jacopo arrivò in studio, mi trovò già al tavolo da disegno.
Davanti a me, aperti, c’erano i raccoglitori di Teodoro e i miei quaderni.

«Che cos’è tutta questa carta?» chiese, appoggiandosi allo stipite.

«Un’eredità» risposi. «E un’idea.»

Mi sedetti dritta.
«Voglio creare una cosa che si chiami Borsa Rinaldi. Un programma di mentorship e tirocinio pagato per giovani architetti che non hanno agganci né famiglie ricche. Li faremo lavorare su progetti veri, li affiancheremo ai nostri team, useremo questi» – indicai i raccoglitori di Teodoro – «per mostrare loro che anche un “mostro sacro” sbaglia, riprova, cambia.»

Jacopo sfogliò uno dei raccoglitori, poi i miei quaderni.
«È costoso. Tempo, energie, stipendi» osservò.

«Lo so. Ma noi non costruiamo solo edifici. Costruiamo chi li progetterà domani» risposi. «Teodoro avrebbe amato una cosa del genere.»

Jacopo rimase in silenzio qualche istante.
Poi annuì piano.
«Sì. L’avrebbe amata molto. Parliamone con il team risorse umane e con i capi progetto. Se riusciamo a strutturarlo bene, può diventare il cuore dello studio.»

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