Divorziata, senza casa e nel cassonetto: la frase di una sconosciuta ha riscritto per sempre la mia vita

Per la prima volta da mesi, sentii quel tipo di entusiasmo che ti fa dimenticare la stanchezza.


Il mio telefono vibrò sulla scrivania.

Numero sconosciuto.
Aprii il messaggio e il sangue mi gelò.

«Complimenti per l’eredità. Sembri cavartela alla grande. Dovremmo parlarne. R.»

Riccardo.

Aveva scoperto tutto da qualche articolo online su “la giovane erede che prende le redini di uno storico studio di architettura”.

Mostrai il messaggio a Jacopo. Il suo sguardo si fece duro.
«Vuole infilarsi di nuovo nella sua vita, ora che ha qualcosa da prendere.»

«È sempre stato bravissimo a fiutare dove giravano i soldi» dissi, amara.

Dopo pochi secondi arrivò un secondo messaggio.

«Ho fatto degli errori. Ora lo capisco. Possiamo vederci per un caffè? Per chiudere in pace?»

Inspirai a fondo.
Per dieci anni avevo creduto ad ogni sua parola.
Adesso, per la prima volta, non mi facevano più effetto.

Cancellai i messaggi, lo bloccai e riposi il telefono.

«E…?» chiese Jacopo.

«E niente. È fuori dalla mia storia. Finito» risposi.
E mi resi conto che era vero. Non provavo più rabbia. Solo una lontanissima pietà.


Poco dopo arrivò la prova del fuoco.

Il nostro primo grande progetto con me come amministratrice delegata: il Progetto Andriani.

Un imprenditore del settore tecnologico voleva una nuova sede principale a Torino: un edificio iconico, sostenibile, un manifesto. Il tipo di progetto per cui lo studio Rinaldi era sempre stato famoso.

Lavorai tre settimane gomito a gomito con i team di strutturisti e impiantisti.
Tetto verde, raccolta delle acque piovane, facciata intelligente che regolava luce e temperatura, spazi aperti al quartiere.

Jacopo lo chiamava «un organismo vivente» più che un palazzo.

La presentazione era fissata per le dieci del mattino.
Alle 9:45 entrai in sala riunioni con il modello in scala e il mio portatile sotto braccio.

Appoggiato alla porta c’era Carminati, con un sorriso sottile.

«Cerca questo?» chiese, sollevando il mio portatile. «L’ho trovato in cucina. Qualcuno deve averlo lasciato lì.»

«Grazie» risposi fredda. «Che gentile.»

Lo presi, lo collegai al proiettore, aprii il file della presentazione.
Sul portatile sembrava tutto normale.

Ma appena le slide comparvero sullo schermo, lo stomaco mi si chiuse.

I testi erano sballati, immagini mancanti, rendering sostituiti da messaggi di errore.
Una catastrofe visiva.

«Tutto bene?» sussurrò Jacopo, entrando con il cliente e il suo staff.

Avevo trenta secondi per decidere.

Panico.
Rinvio.
Ammettere il disastro.

Oppure fare ciò che Teodoro avrebbe fatto.


Chiusi il portatile con calma e sorrisi al cliente.
«In realtà, credo che la tecnologia oggi ci stia chiedendo una pausa» dissi. «Ma è quasi meglio così.»

Presi un pennarello e mi voltai verso la grande lavagna bianca.

«Ingegnere Andriani, lei ha detto di volere un edificio che racconti una storia.
Se non le dispiace, gliela racconto così.»

Iniziai a disegnare il profilo dell’edificio, spiegando come la forma fosse ispirata al paesaggio della collina torinese e come ogni angolo avesse una funzione precisa.

«L’architettura tradizionale tratta gli edifici come oggetti statici» dissi, tracciando frecce, annotando appunti. «La sua sede sarà dinamica. Viva.»

Disegnai il percorso dell’aria, dell’acqua, del sole nelle diverse stagioni.
«In estate, la facciata intelligente si oscura da sola per ridurre il surriscaldamento. In inverno, lascia entrare più luce per sfruttare il calore naturale.»

Andriani si avvicinò alla lavagna, gli occhi brillanti.
Jacopo mi passava pennarelli di colori diversi, io aggiungevo ombre, dettagli, alberi, persone.

Dopo quarantacinque minuti la lavagna era piena: sezione, prospetti, schemi di funzionamento, spazi pubblici, percorsi pedonali.
Non era la presentazione lucida che avevo preparato, ma era vera.
E soprattutto si vedeva che l’idea era dentro di me, non nel computer.

Andriani fece il giro della lavagna in silenzio.
Poi si voltò verso di noi.

«È esattamente quello che cercavo» disse. «Voglio un edificio che respiri con la città.
Quando possiamo cominciare?»

Appena uscirono, dopo aver fissato le linee generali dell’accordo, mi appoggiai al tavolo e finalmente respirai.

Jacopo aveva un sorriso enorme.
«È stato impressionante. E sì, qualcuno ha sabotato i file.»

«Lo so. E so anche chi ha preso in mano il mio portatile ieri “per controllare le scadenze”.»

«Carminati» disse lui, senza esitare.


Quella sera convocai una riunione straordinaria del consiglio, con Vittoria come consulente legale.

«Voglio affrontare quanto è successo stamattina» dissi, quando tutti furono seduti. «La presentazione del Progetto Andriani è stata deliberatamente danneggiata.»

«È un’accusa grave» intervenne subito Carminati, incrociando le braccia.

«Lo è» concordò Vittoria. «Per questo ho chiesto al reparto informatico di verificare i log.
Le modifiche al file sono state fatte ieri sera alle 18:47… dal suo computer, ingegner Carminati.»

Silenzio.
Il volto di Carminati si fece rosso.

«Stavo solo rivedendo i documenti» protestò. «Qualcosa dev’essere andato storto.»

«Curioso» ribatté Jacopo freddamente. «Lo stesso “incidente” in tutte le copie e nei backup?»

«Volevo metterla alla prova» sbottò allora Carminati. «Teodoro ha lasciato questo studio in mano a un’inesperta. Qualcuno doveva capire se era in grado di reggere la pressione.»

Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬

Scroll to Top