Margherita era ferma sulla porta.
«L’amava moltissimo» disse piano. «Ogni cosa che ha fatto, l’ha fatta da lì, da quell’amore.
Pensava che se avesse spinto troppo, lei si sarebbe allontanata ancora. Allora ha aspettato. E ha preparato questo posto per il giorno in cui sarebbe tornata.»
«Ho sprecato così tanto tempo» mormorai.
«No» rispose lei. «Ha imparato. E suo zio lo sapeva.»
Quella sera chiamai Jacopo.
«Può venire al palazzo?» chiesi. «Vorrei parlarle di una cosa.»
Arrivò in meno di un’ora.
Gli misi in mano il diario.
Si sedette nello studio di Teodoro e lo lesse dall’inizio alla fine, in silenzio.
Quando chiuse l’ultima pagina, alzò lo sguardo verso di me.
«Come si sente?» chiese.
«Come se qualcuno mi avesse finalmente raccontato la mia storia da fuori» dissi. «Come se Teodoro mi avesse capita meglio di quanto mi capissi io.»
Jacopo si avvicinò alla finestra.
«Per quello che vale» disse, «credo avesse ragione anche su un’altra cosa.
La Sofia che è entrata in quella sala riunioni il primo giorno non sarebbe esistita senza tutto quello che ha passato.
Non sto dicendo che Riccardo le abbia fatto un favore, eh.
Ma ha trasformato le ferite in qualcosa di solido. In una struttura.»
Esitai.
«Zio Teodoro parla anche di lei, nel diario. Dice che le ha chiesto di aiutarmi. È per questo che è qui? Per obbligo verso di lui?»
Jacopo rimase in silenzio qualche secondo.
«All’inizio sì» ammise. «Me l’ha chiesto lui. Voleva qualcuno che non cercasse di controllarla.
Ma, Sofia… smetto di farlo per Teodoro da un bel po’.
Adesso lo faccio perché, ogni giorno, la vedo diventare sempre più se stessa.
E questo non è obbligo. È… ammirazione.»
Ci fu un attimo sospeso.
Sentii una fitta al petto che non era dolore, ma qualcosa di pericolosamente vicino alla speranza.
Lui però fece un passo indietro.
«E non voglio complicarle la vita» aggiunse, abbassando lo sguardo. «Si è appena liberata da un matrimonio terribile. Sta ricostruendo tutto. Non le metterò addosso nessun’altra pressione.»
Prima che potessi rispondere, si alzò.
«Per adesso basta che sappia questo: io ci sono. Come socio, come alleato. Il resto… si vedrà.»
Rimasi sola nello studio di Teodoro, con il diario sulle ginocchia e la città che brillava fuori.
Per la prima volta, però, non mi sentivo più né sola, né persa.
Tre mesi dopo, la Borsa Rinaldi vide la luce.
Pubblicammo il bando: dodici posti per neolaureati o studenti all’ultimo anno, provenienti da contesti diversi, con borse di studio, tirocinio pagato e la possibilità di lavorare su progetti reali.
Arrivarono più di trecento candidature.
Jacopo ed io passavamo le serate a sfogliare portfolio al tavolo grande dello studio.
«Questa» dissi indicando una cartellina. «Emma Rodríguez. Sta progettando centri di accoglienza per senza tetto con orti condivisi. Non vede l’architettura solo come forma, ma come cambiamento sociale.»
Jacopo studiò le sue tavole.
«È giovane. Ventidue anni. Nessuna esperienza vera.»
«Nemmeno io ne avevo, quando Teodoro ha creduto in me» risposi. «Questo è il punto.»
I borsisti arrivarono a settembre. Alcuni italiani, altri da altri Paesi europei, uno studente italo-argentino, una ragazza di origine marocchina.
Erano tesi, emozionati, intimiditi dal nome Rinaldi.
Li riunii nel mio studio al quinto piano.
«La vostra presenza qui non è beneficenza» dissi. «È un investimento. Teodoro credeva che la grande architettura nascesse da sguardi diversi.
Lavorerete su progetti veri, al fianco dei nostri architetti.
Le vostre idee verranno ascoltate, discusse, a volte adottate, a volte no. Fa parte del gioco.
Benvenuti a Rinaldi Architettura.»
Dopo, Emma mi si avvicinò con le mani leggermente tremanti.
«Grazie, ingegner Rinaldi» disse. «La mia famiglia non ha mai capito perché volessi studiare architettura. Dicevano che è un sogno da gente ricca.»
Sorrisi amaramente.
«Fammi indovinare. Ti hanno detto che è un hobby carino, ma che dovresti cercare “un lavoro vero”?»
Lei sgranò gli occhi. «Sì. Quasi con le stesse parole.»
«Ricordati questo allora:
le persone che non capiscono la passione cercheranno sempre di ridurla.
Il mio ex marito ha passato dieci anni a dirmi che la mia laurea era uno spreco. Oggi lo studio porta il nome di mio zio e io sono qui. Lui no.
Non lasciare mai che qualcuno ti faccia sentire piccola perché sogni in grande.»
Il programma era duro.
I borsisti lavoravano quaranta ore a settimana su progetti dello studio, più una serie di esercitazioni interne guidate da noi. Qualcuni senior borbottavano, ma la maggior parte si appassionò in fretta all’idea di “restituire” qualcosa.
A novembre, il progetto di Emma – un centro di accoglienza con giardino condiviso e spazi di formazione – attirò l’attenzione di una associazione che lavorava con persone senza dimora in periferia di Milano.
Volevano che Rinaldi Architettura guidasse il progetto, con Emma come principale progettista sotto supervisione.
«È troppa responsabilità» disse lei, pallida. «Ho appena iniziato.»
«Sei un’architetta» risposi. «Comportati come tale. Ci sarò io accanto a te, e Jacopo, e il team. Ma la visione è tua.»
Il successo però attirò anche critiche.
Alcuni blog di settore iniziarono a insinuare che stessimo sfruttando il lavoro dei giovani.
Un concorrente in particolare, Marco Chen, amministratore di uno studio storico ereditato dal padre, avviò una vera e propria campagna sotterranea: interviste in cui parlava di “modelli pericolosi”, articoli dove ci dipingeva come furbi che pagavano poco per avere idee fresche.
Quando un grande giornale di architettura pubblicò un suo editoriale critico sui “nuovi programmi che mascherano stage intensivi da opportunità sociali”, decisi di rispondere.
Scrissi un articolo intitolato:
«Costruire ponti: perché l’architettura ha bisogno di nuove voci».
Spiegai nel dettaglio la struttura della Borsa Rinaldi: compensi, tutoraggio, progetti.
Parlai apertamente di privilegio.
«Marco Chen ha ereditato il suo studio da suo padre. Non giudico questo vantaggio.
Ciò che giudico è la scelta di togliere la scala dietro di sé.
Il vero problema non è se programmi come la Borsa Rinaldi siano sfruttamento.
Il problema è se il nostro settore è disposto a evolversi oltre il nepotismo per servire davvero le comunità per cui costruiamo.»
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