L’articolo fece il giro dei social.
Università lo condivisero, giovani architetti lo rilanciarono con commenti commossi.
Nel giro di una settimana, tre altri studi annunciarono programmi simili al nostro.
«Sta cambiando le regole del gioco» disse Jacopo una sera, appoggiato al parapetto del tetto giardino del palazzo. «Teodoro sarebbe fiero. Anche se avrebbe finto il contrario.»
Risi.
«Avrebbe borbottato qualcosa tipo: “Era ora”.»
Il successo però portò con sé un nuovo tipo di attenzione.
Una grande piattaforma di streaming europea ci contattò: volevano realizzare una serie documentaria sull’architettura che cambia le città.
Volevano seguire il centro di accoglienza di Emma, la Borsa Rinaldi, la trasformazione dello studio… e la mia storia.
«È un’enorme vetrina» disse la responsabile marketing. «Ma significa esporre la sua vita privata.»
Guardai Jacopo.
«Tu che ne pensi?»
«Penso che seguirai il tuo istinto, come sempre» rispose. «Ma chiediti cosa sei disposta a condividere. La tua storia è potente, ma è anche tua.»
Quella sera ci sedemmo nel salotto del palazzo, con il diario di Teodoro ancora sul tavolino.
«Se lo faccio, mi chiederanno del matrimonio, del perché io e Teodoro non ci parlavamo. Dovrò parlare di Riccardo» dissi.
«E quindi di abuso emotivo, controllo, umiliazioni» disse Jacopo piano.
Non ci avevo pensato così chiaramente, ma aveva ragione.
«Non voglio che lui diventi il protagonista. Ha già avuto dieci anni» sospirai. «La storia vera è Teodoro. E il fatto che, anche toccando il fondo, puoi ricostruirti.»
Alla fine, presi una decisione.
«Lo faccio» dissi. «Ma le regole le dettiamo noi. Niente reality show. Questo è un racconto di architettura e rinascita, non pettegolezzo.»
La troupe arrivò in primavera.
Per due mesi filmarono tutto:
l’apertura del centro di Emma, con i primi ospiti che entravano in uno spazio progettato davvero pensando alla loro dignità;
le lezioni con i borsisti;
le riunioni del consiglio, ora molto più serene;
i sopralluoghi ai cantieri.
Intervistarono gli amici di Teodoro, che raccontavano di come parlasse di me anche quando non mi vedeva.
Margherita parlò di quanto gli fosse costato aspettare in silenzio.
E poi, inevitabilmente, arrivò la domanda su Riccardo.
L’intervista avvenne nel mio studio al quinto piano, davanti alle finestre che davano sui tetti.
La giornalista mi chiese: «Ha voglia di parlare del suo matrimonio?»
Inspirai.
«Dirò questo» risposi. «Sono stata sposata con un uomo che aveva bisogno che io fossi piccola per sentirsi grande. La mia laurea lo infastidiva, le mie idee lo innervosivano.
Il divorzio mi ha lasciata senza niente, ma mi ha restituito la cosa più importante: me stessa.
I dettagli non contano.
Quello che conta è che sono sopravvissuta e che da quelle macerie ho costruito qualcosa di mio.
Il resto è rumore.»
La giornalista provò a scavare di più, ma sorrisi e scossi la testa.
«Questa serie non è su di lui. È su ciò che si può costruire dopo che hai toccato il fondo.»
La serie uscì a fine estate.
Nella puntata dedicata a noi si vedeva Emma che spiegava il progetto del centro ai giornalisti con una sicurezza che tre mesi prima non aveva.
Si vedeva Jacopo mentre parlava della filosofia di Teodoro.
Si vedeva me, salire le scale del palazzo con la stessa borsa nera di quando ero arrivata, ma con un passo completamente diverso.
Le reazioni furono travolgenti.
Studenti di architettura da tutta Europa scrivevano mail in cui raccontavano di famiglie che non credevano in loro.
Donne di ogni età mi ringraziavano per aver parlato di controllo emotivo senza spettacolarizzarlo.
La Borsa Rinaldi ricevette più di mille candidature per il ciclo successivo.
Una sera, mentre cenavo con Jacopo in una trattoria vicino al Naviglio, il telefono suonò.
Numero sconosciuto.
Risposi distrattamente.
«Pronto?»
«Sofia, sono Riccardo.»
Mi si gelò il sangue per un istante. Jacopo mi prese la mano sotto il tavolo.
«Come hai avuto questo numero?» chiesi.
«Ho visto la serie» disse lui. «Mi hai fatto passare per il cattivo.»
Scoppiai quasi a ridere.
«Non ho nemmeno fatto il tuo nome. Se ti sei riconosciuto, è un problema tuo, non mio. Si chiama coscienza, Riccardo.»
«Le persone capiscono che parlavi di me. I nostri vecchi amici, i vicini… Stai distruggendo la mia reputazione.»
«Io non sto facendo niente alla tua reputazione.
Ho raccontato la mia verità.
Se la tua coscienza ti brucia, magari fatti qualche domanda» risposi, alzandomi per allontanarmi dal rumore della sala.
«Voglio una dichiarazione pubblica in cui dici che non sono stato abusivo e che il divorzio è stato consensuale» insistette lui.
L’aria della sera milanese era tiepida sul viso.
«No» dissi. «Riccardo, ti dico questo una sola volta: hai passato dieci anni a convincermi che ero nulla. Hai preso tutto quello che potevi nel divorzio.
Adesso che ho ricostruito una vita che ti spaventa, vuoi riscrivere la storia.
Non ti devo niente. Né il mio silenzio, né il mio tempo, né la mia tranquillità.
Per me sei una nota a piè di pagina, e onestamente è già troppo.
Non chiamare mai più.»
Chiusi la chiamata.
Il cuore mi batteva forte, ma non per paura. Per una strana, nuova leggerezza.
Tornai al tavolo.
Jacopo mi porse il bicchiere.
«Com’è andata?» chiese.
«L’ho messo definitivamente fuori dalla mia storia» risposi. «È libero di raccontare quello che vuole.
Io ho da costruire cose ben più importanti.»
Al tavolo accanto, una signora sulla sessantina si voltò.
«Mi perdoni» disse. «Non volevo origliare, ma ho riconosciuto la sua voce. Ho visto la serie.
Grazie per aver parlato così apertamente.
Mia figlia è in una relazione in cui mi sembra di rivedere alcune dinamiche che ha descritto. La sua storia potrebbe darle coraggio.»
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