La scommessa da un milione di euro: come un bambino di sette anni a un angolo di strada ha zittito un magnate della tecnologia che derideva la fede, e la verità impensabile che mi ha ridato le gambe – il problema non era mai stata la colonna vertebrale.
Il rumore della città arrivava attutito, come se qualcuno avesse abbassato il volume del mondo. Quello che sentivo davvero, forte e chiaro, era solo il ronzio del mio autocompatimento. Era diventata la colonna sonora della mia vita.
Mi chiamo Tommaso Valli.
Ero bloccato.
Tre anni. Tre anni esatti dall’incidente che mi aveva trasformato da re del mondo digitale – l’uomo che decideva le mosse del mercato, che comprava e vendeva aziende con un clic – in prigioniero della mia sedia a rotelle su misura, costosissima e silenziosa.
Nessun fisioterapista, nessun intervento sperimentale, nessun dispositivo futuristico progettato con il mio denaro senza limiti era riuscito a restituirmi la sensibilità sotto la vita. Rimanevo seduto lì, ogni giorno, nel mio abito blu scuro fatto a mano, il mio orologio di lusso che brillava al polso, i gemelli d’oro ai polsini che mi ricordavano una sola cosa: i soldi, per la prima volta, non erano serviti a niente.
Ero rabbia avvolta in lana pregiata.
Ogni mattina facevo portare la mia sedia nello stesso punto del parco, a Milano, vicino a un grande platano dalla corteccia chiazzata. Da lì guardavo la gente che passava, nutrendo il mio rancore e imprecando in silenzio contro quel Dio in cui, incomprensibilmente, tanti credevano ancora.
Il mondo, in fondo, continuava a rispettarmi. Sì, il nome “Tommaso Valli” faceva ancora effetto. Ma ora, insieme al rispetto, c’era una cosa che non sopportavo: la pietà. Quelli che passavano mi guardavano e pensavano: “Che tragedia, un uomo così ricco, ridotto così”.
Capivo quegli sguardi. E li odiavo.
I miei soldi, un tempo spada, erano diventati catena.
Fu lì che lo vidi.
All’inizio era solo una macchia di colore all’angolo del vialetto. Un bambino, non più di sette anni. Pelle scura, magrissimo. Indossava una maglietta bianca ormai ingrigita, infilata dentro un paio di pantaloncini rattoppati, di un verde sbiadito che non si capiva più che colore fosse stato. Dalla spalla gli pendeva una piccola sacca grigia con il laccio.
Le braccia incrociate davanti al petto.
Lo sguardo, fisso.
Non era lo sguardo di chi chiede l’elemosina. Non era neanche spaventato. Era… sicuro.
Socchiusi gli occhi. Il mio modo automatico di guardare il mondo era il disprezzo.
«Che c’è?» borbottai, con la voce roca, poco abituata a parlare. «Ti serve qualcosa, ragazzino? C’è una mensa più in là, cerca lì.»
Lui non si mosse.
Poi iniziò ad avvicinarsi, lentamente, con passi corti e decisi. Le sue scarpe da ginnastica graffiavano appena la ghiaia.
Quando finalmente parlò, la sua voce era sottile ma ferma, come un piccolo martello che batte sempre nello stesso punto.
«Lei è arrabbiato perché pensa che nessuno possa aggiustarla» disse. «Ma se prima mi dà da mangiare, io posso farlo.»
Rimasi immobile un secondo. Poi scoppiò da me una risata fragorosa, dura, cattiva. Una coppia che portava a spasso il cane si voltò di colpo.
«Questa è buona» ansimai, asciugandomi una finta lacrima dall’angolo dell’occhio. «Fammi indovinare. Hai le mani magiche?» Mi guardai teatralmente intorno. «Dove sono le telecamere nascoste? Chi ti manda? Sei uno di quei ragazzini dei social che fanno finta di guarire la gente?»
«Ho fame» disse il bambino, con semplicità, ignorando completamente la mia ironia. «Ma se mi dà da mangiare, io la guarisco.»
«Ah, adesso ti va di mangiare?» mi piegai leggermente in avanti, con un sorriso storto. «Allora funziona così: io ti compro un panino, tu fai il tuo numeretto, e puff, ricomincio a camminare.»
Il bambino non batté ciglio.
La mia smorfia si irrigidì.
«Sai che c’è?» dissi, facendo un gesto ampio con la mano. «Facciamo le cose in grande.»
Abbassai la voce in un finto sussurro teatrale:
«Ti do un milione di euro.»
«Hai capito bene, piccolo. Un milione.» continuai, con tono sprezzante, una mano sul petto come un attore sul palco. «Ti do un milione di euro se mi guarisci.» Allungai le ultime parole con una cantilena di scherno. «Dai, forza. Guariscimi adesso. Fammi vedere il tuo trucco.»
«E se quello che ha perso non fosse solo quello che pensa?»
Lo seppi solo più tardi che si chiamava Michea. In quel momento fece un respiro profondo e si avvicinò ancora. Ora era abbastanza vicino perché io potessi vedere la polvere sottile intorno al suo colletto, e le piccole mani, piene di graffietti, chiuse a pugno come a trattenere la pazienza.
Ma più di tutto mi colpì una cosa: la calma.
Una calma che le mie parole cattive non riuscivano minimamente a scalfire.
«Pensa di essere l’unico a soffrire?» chiese piano. «Io non mangio da tre giorni.»
Continuò, con la stessa voce tranquilla:
«Mia madre è morta su un pavimento freddo e dimenticato. Non ho le scarpe perché le ho date a qualcuno che ne aveva più bisogno di me.»
Sgranei gli occhi. Non mi aspettavo quei dettagli.
«Ma non mi serve il suo denaro» aggiunse Michea. «Mi serve solo la sua fiducia.»
Storsi la bocca. «Ah, quindi è una storia di fede.»
«Non mi serve che creda in me» mi corresse il bambino. «Mi basta che creda che, da qualche parte, c’è ancora un po’ di bene. Anche dentro di lei.»
L’aria tra di noi sembrò farsi più densa. In alto, uno scoiattolo salì di corsa sul tronco del platano, le foglie frusciarono nel vento leggero. Ma la tensione restava lì, sospesa.
Mi sporsi in avanti sulla sedia, fissandolo.
«Tu vieni qui, vestito di stracci, a predicare speranza e miracoli» sibilai. «Non hai idea di cosa voglia dire perdere tutto.»
Michea scosse la testa, piano, come chi è profondamente in disaccordo.
«Lei non ha perso tutto» disse. «È ancora vivo.»
E quelle parole, incredibilmente semplici, mi colpirono più di qualsiasi insulto.
La mia smorfia vacillò per un istante.
«Ho finito» dissi brusco. «Vai a fare il piccolo profeta da un’altra parte.»
Ma lui non si mosse.
Allungò una mano verso la sacca, la aprì… ma non tirò fuori niente. Rimase con il palmo aperto verso l’alto, come se mi offrisse qualcosa che non si vede.
Scoppiai in un’ultima risata di scherno. «Pensi davvero che questo possa funzionare?»
Fu allora che Michea fece un passo avanti e posò la mano sul mio ginocchio.
La risata mi morì in gola.
Un leggero scatto. Un brivido quasi impercettibile. Il magnate arrogante smise all’improvviso di fare il buffone. La mia mano, che stringeva la ruota della sedia con sicurezza, iniziò a tremare. Abbassai lo sguardo. Le dita sottili di Michea, sporche di polvere, erano appoggiate sul mio ginocchio.
Il mio ginocchio.
La parte di me che non sentivo da più di tre anni.
E adesso… formicolava.
All’inizio pensai che fosse solo ansia, o suggestione. Ma la sensazione aumentava. Un calore sottile partiva dal polpaccio e risaliva verso la coscia, come un filo di corrente che torna in un circuito spento da anni. Mi tirai indietro di scatto, il fiato mozzato.
«Che… che cosa hai fatto?»
Michea non rispose. Mi guardò soltanto, senza orgoglio e senza trionfo. Solo con una calma certezza che mi spaventava più di tutto.
Il cuore batteva così forte che lo sentivo nelle orecchie. Mi chinai e afferrai il ginocchio con entrambe le mani.
Non è possibile.
Non può essere vero.
Ma qualcosa c’era.
Qualcosa di vivo.
Qualcosa che si muoveva, dentro di me.
Michea tolse piano la mano.
«Non sono stato io» disse. «È stato Lui. Quello in cui ha smesso di credere.»
Lo fissai come se avessi davanti un fantasma.
«È… è un trucco» mormorai, quasi senza voce. «Non può essere. Non può succedere.»
Ma nel petto non sentivo solo confusione.
Era paura.
E, peggio ancora, vergogna.
Michea non discusse. Non cercò di convincermi.
Restò solo in piedi, con le braccia incrociate.
Come se aspettasse che fossi io a fare la prossima mossa.
«Sa perché nessun medico è riuscito ad aiutarla?» domandò infine. «Perché i suoi milioni non potevano curarla?»
Deglutii. «Perché?»
«Perché il problema non erano le sue gambe» rispose piano.
Gli occhi iniziarono a bruciarmi.
«E allora cosa?» sussurrai.
«Ha spezzato le persone per andare avanti» disse Michea, con la semplicità di chi elenca fatti. «Ha licenziato il suo assistente, Giordano, quando il figlio era in ospedale. Il suo amico Marco è fallito quando lei si è ritirato da un accordo all’ultimo momento. Ha allontanato perfino sua moglie, perché il suo dolore la faceva sentire debole.»
Mi mancò il respiro.
Le immagini arrivarono una dopo l’altra, nitide.
L’espressione distrutta di Giordano.
La voce rotta di Marco al telefono.
Lo sguardo spento di mia moglie mentre chiudeva la valigia.
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