Ero un magnate senza fede finché un bambino affamato mi ha sfidato con una promessa impossibile

Ero un magnate senza fede finché un bambino affamato mi ha sfidato con una promessa impossibile

«Ho fatto quello che dovevo fare» riuscii a balbettare.

«No» sussurrò il bambino. «Ha fatto quello che il suo ego le diceva di fare.»

Non c’era rabbia nella sua voce. Solo verità nuda.
Ed era molto peggio.

«E adesso?» chiesi, con la voce spezzata. «Ha detto quello che doveva dire. E adesso?»

Michea mi guardò un’ultima volta dritto negli occhi.

«Dia da mangiare a chi ha fame» disse.

«Perdoni l’amico che ha ferito. Dia, non per sentirsi meglio la notte, ma per dare pace a loro.»

«Allora forse non torneranno solo le sue gambe.»

Si voltò e iniziò ad allontanarsi.

«Aspetta!» gridai, spingendo con forza le ruote. «Ho soldi, macchine, case… Prendi quello che vuoi, basta che…»

Michea si fermò un attimo, senza girarsi del tutto.

«Le ho detto che non mi serve il suo denaro» rispose. «Serve a loro.»

E poi riprese a camminare.
Nessun effetto speciale, nessuna musica dal cielo.
Solo un bambino che se ne andava lungo il viale alberato, come se fosse stato lì da sempre.

Rimasi seduto, tremando.
Le mani ancora sulle ruote.

Feci un respiro profondo, quasi doloroso, e abbassai lo sguardo ai piedi.

Poi spinsi piano sui poggiapiedi.
Una volta.
Due.

Le gambe tremavano come se non fossero più le mie.

Stringendo i denti, mi aggrappai ai braccioli e, per la prima volta dopo tre anni, mi alzai in piedi.

Tommaso Valli, il grande uomo del mondo digitale, in piedi nel mezzo di un parco, con le lacrime che gli rigavano il viso.

E piansi.
Piansi come non avevo mai pianto.

Una settimana dopo, una piccola troupe televisiva era davanti a un edificio nuovo di zecca, in una via laterale della città.

Sull’insegna c’era scritto: La Tavola di Michea.

Non era un ristorante alla moda.
Era un centro dove chi non aveva nulla poteva sedersi e ricevere un pasto caldo, senza domande, senza giudizi.

Interamente finanziato da… Tommaso Valli.

Quel giorno non indossavo un completo elegante.
Avevo una camicia a quadri, le maniche arrotolate, un grembiule legato in vita. Dietro il bancone, riempivo piatti di pasta fumante e spezzavo il pane.

La fila di persone arrivava quasi fino alla strada. Uomini, donne, bambini.

Non parlavo molto.
Ma guardavo ognuno negli occhi e chiedevo il nome prima di porgere il piatto.

Ogni volta che i miei piedi toccavano il pavimento, sentivo un brivido che mi ricordava il platano del parco.
Il bambino magro, con la maglietta sbiadita, che non aveva voluto né un milione di euro, né un grazie pubblico.

Michea mi aveva lasciato con qualcosa che nessuna clinica, nessun chirurgo, nessuna tecnologia all’avanguardia aveva potuto darmi:

La fede che qualcosa di buono può ancora nascere da chi ha sbagliato tutto.
La speranza che il dolore non sia l’ultima parola.
La possibilità di chiedere perdono e di ricominciare.

E il dono che i miei soldi non avevano mai potuto comprare:

Una seconda possibilità.

Scroll to Top