Il vecchio è morto da solo, in un monolocale in affitto in periferia, e il figlio ha scritto sui social, lo stesso giorno:
«Finalmente libero da quell’imbarazzo.»
Io sono il direttore dell’agenzia funebre che si è occupata di lui.
In quarant’anni di funerali, non avevo mai visto una famiglia così crudele.
L’uomo si chiamava Giovanni “Mazza” Moretti. Era stato vigile del fuoco per quasi trent’anni, poi l’alcol gli aveva distrutto matrimonio, salute e rapporti familiari.
Suo figlio, Luca, oggi dentista affermato, è entrato nel mio ufficio, ha buttato una carta di credito sul tavolo e ha detto:
«La cosa più economica. Nessun funerale, nessuna cerimonia. Cremazione e basta.»
Quando ho provato a suggerire che forse qualche parente avrebbe voluto salutare Giovanni per l’ultima volta, Luca ha riso amaramente.
«Nessuno vuole ricordare che quell’ubriacone è esistito. Ha scelto la bottiglia e la caserma al posto della famiglia. Che marcisca da solo, come ha vissuto.»
Le carte dell’ospedale raccontavano un’altra storia.
Giovanni era sobrio da quindici anni.
Era morto di cancro al pancreas.
Sul conto in banca aveva poco più di duecento euro.
Nella busta dei suoi effetti personali, però, c’erano anche una piccola chiave di un deposito e un foglietto, scritto con calligrafia incerta:
«Per quando non ci sarò più. Per favore, assicuratevi che tutto questo arrivi alle persone giuste.»
Quello che ho trovato in quel deposito ha fatto crollare tutte le mie regole professionali.
Perché Giovanni Moretti non era morto solo e dimenticato: aveva passato quindici anni a salvare vite in segreto, mentre la sua famiglia faceva finta che fosse morto da tempo.
E io ho deciso che il mondo doveva saperlo. A cominciare da quel figlio che lo chiamava “vergogna”.
Il deposito era in un grande capannone di box in affitto alla periferia della città.
Dentro al box di Giovanni c’erano scatoloni. Decine.
Ognuno aveva sopra un anno scritto a pennarello.
Ho aperto il primo:
«2008 – Primo anno sobrio».
Dentro c’era un quaderno di pelle consumata, con una scrittura tremolante:
«Primo giorno senza bere. Luca non risponde alle telefonate. Non vedo mia nipote Chiara da tre anni. Oggi al gruppo di auto-aiuto ho conosciuto un ragazzo di diciannove anni, Marco, distrutto dalla droga. Mi ha ricordato me da giovane. Gli ho dato i miei ultimi venti euro per mangiare e il mio numero di telefono. Se non posso salvare la mia famiglia, forse posso salvare quella di qualcun altro.»
Accanto al quaderno, foto stampate:
Giovanni e Marco al bar con un caffè, poi Marco con la tuta di un corso professionale, e infine una partecipazione di matrimonio.
Sulla partecipazione c’era una dedica:
«A Giovanni, il “Mazza” che mi ha tirato fuori dall’inferno. Senza di te non sarei vivo. Vuoi essere il mio testimone?»
Scatolone dopo scatolone, la verità veniva fuori come un fiume.
Giovanni aveva fatto da “sponsor” a quarantasette persone in recupero dall’alcol o dalla droga.
Aveva venduto la sua amata moto e la sua vecchia auto per pagare la comunità a uno dei ragazzi.
Viveva in un appartamento piccolo e umido per poter aiutare altri a pagare l’affitto nei momenti più difficili.
L’uomo che suo figlio chiamava “ubriacone” non toccava un goccio d’alcol dal giorno in cui era nata sua nipote Chiara.
Quella nipote che non gli avevano mai permesso di vedere.
In uno degli scatoloni c’era una lettera recente, di appena un mese prima, firmata da una donna di nome Elena:
«Giovanni, i medici dicono che il tuo tumore sta peggiorando, ma tu sei venuto lo stesso alla recita di fine anno di mia figlia. Sei stato più padre tu per me, in questi anni, di quello che ho avuto da bambina. So che sei malato e che lo nascondi per non farci preoccupare. Ma noi ti vogliamo bene. La tua “famiglia” del gruppo, i tuoi ex colleghi della caserma, tutti. Lasciati aiutare, almeno una volta.»
Giovanni non aveva mai detto loro quanto fosse grave.
Non aveva detto a nessuno che stava morendo da solo in quel monolocale, mentre il figlio viveva in una villetta elegante a pochi chilometri di distanza.
Fra le carte c’erano anche le cartelle cliniche: cancro al pancreas in stadio avanzato.
Aveva rifiutato cure costose, non perché volesse morire, ma perché non voleva sprecare i pochi soldi che aveva messo da parte per aiutare gli altri.
L’ultimo assegno, firmato due giorni prima di morire, era di cinquecento euro per «una madre giovane in recupero, per i libri di scuola della bambina».
Nell’ultimo scatolone ho trovato la cosa che mi ha spezzato.
Centinaia di stampe di foto prese dai social:
Ogni immagine che Luca aveva pubblicato di sua figlia Chiara.
Il primo giorno di scuola, le recite, i compleanni, i viaggi.
Giovanni aveva seguito la crescita della nipote a distanza, come un fantasma che guarda dal marciapiede una casa dove non può entrare.
Ogni foto stampata, ritagliata con cura, con la data scritta dietro a penna.
Sotto quel mucchio di foto c’era un pacchetto ben incartato, con un biglietto:
«Per il diciottesimo compleanno di Chiara. So che non ci sarò, ma voglio che sappia che suo nonno l’ha amata, anche da lontano.»
Dentro c’era una medaglia al valor militare appartenuta al padre di Giovanni, reduce di guerra.
E una lettera.
«Cara Chiara,
non mi conosci, ma io ti voglio bene da quando sei nata.
Non sono stato un buon padre per tuo papà. L’alcol mi ha portato via anni che non potrò riavere. Il giorno in cui sei venuta al mondo ho deciso di smettere di bere. È stata la scelta migliore che ho fatto, anche se non ho potuto far parte della tua vita.
Questa medaglia era di tuo bisnonno. Lui ha servito il Paese in guerra. Io non sono un eroe come lui, ma ho cercato di onorarlo aiutando gli altri a rialzarsi.
Spero che un giorno tu non ti vergogni di ricordare che hai avuto un nonno che ti ha voluto bene in silenzio.Con affetto,
Giovanni “Mazza” Moretti»
Sono rimasto tre ore seduto su uno sgabello, in quel box freddo, leggendo lettere e guardando fotografie.
Quest’uomo era morto convinto di essere inutile, indesiderato, cancellato dalla sua stessa famiglia.
In realtà aveva trascorso gli ultimi quindici anni a rimettere in piedi altri esseri umani.
Mentre i suoi parenti si dichiaravano «finalmente liberi» da lui.
Ho preso una decisione che avrebbe potuto costarmi il lavoro.
Nel portafoglio di Giovanni c’era scritto, in piccolo, un codice numerico accanto a una data: il compleanno di Chiara.
Ho usato quel codice per sbloccare il suo cellulare e ho aperto la rubrica.
Ho chiamato tutte le persone dei gruppi di recupero.
Ho chiamato gli ex colleghi della caserma dei vigili del fuoco.
Chiunque avesse il nome di Giovanni salvato sul telefono.
«Giovanni Moretti è morto» dicevo a ognuno.
«La famiglia non vuole funerali né cerimonie. Ma ho pensato che dovevate saperlo.»
La risposta è stata immediata. E violenta come un’esplosione.
«Come sarebbe a dire, niente cerimonia?»
«Quest’uomo mi ha salvato la vita!»
«Dove si trova adesso? Arriviamo.»
«La famiglia non può decidere così. Noi siamo la sua vera famiglia.»
Nel giro di due ore, la mia piccola agenzia funebre è stata circondata da decine di auto, furgoni e vecchie moto.
Uomini e donne con giacche ad alta visibilità, ex vigili del fuoco, volontari della protezione civile, persone in recupero dall’alcol, insegnanti, operai, infermieri.
Hanno messo insieme i soldi per un funerale degno.
Un uomo alto, con i capelli grigi e le mani da lavoratore, si è presentato come Sergio, ex collega e coordinatore dei volontari.
«Giovanni era uno di noi» mi ha detto. «Se c’è da pagare, paghiamo noi. Ma lui non se ne va di nascosto, come se fosse niente.»
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