Al cimitero, finalmente, Luca ha parlato.
«Ho ucciso mio padre due volte» ha detto davanti alla tomba.
«La prima quando l’ho cacciato dalla mia vita.
La seconda quando ho festeggiato la sua morte.»
La voce gli si è spezzata.
«Ho lasciato che la mia rabbia mi rubasse quindici anni.
Quindici anni in cui avrei potuto conoscerlo sobrio.
Quindici anni in cui mia figlia avrebbe potuto avere un nonno.
Il fallimento sono io, non lui.»
Sergio gli ha posato una mano sulla spalla.
«Giovanni ti avrebbe perdonato» ha detto piano.
«Era fatto così.»
«Non lo merito.»
«Nessuno “merita” il perdono» ha risposto Sergio. «Per questo si chiama grazia.»
Quando la bara è stata calata nella fossa, ognuno ha gettato dentro qualcosa.
Non fiori, ma gettini di sobrietà, piccoli medaglioni con incisi i mesi e gli anni senza alcol.
Il metallo che cadeva sulla bara faceva un suono leggero, come di campanelli al vento.
Era l’ultimo canto di ringraziamento per un uomo che si era creduto inutile.
Chiara ha intonato una vecchia canzone che Giovanni amava sentire durante le riunioni del gruppo, una canzone che parlava di essere “persi e ritrovati”.
La sua voce è risuonata tra le lapidi.
Quando tutti se ne sono andati, Luca è rimasto solo davanti alla tomba fresca.
Tra le mani stringeva una lettera che Giovanni gli aveva scritto quindici anni prima e che lui aveva fatto rispedire al mittente.
L’ha aperta solo ora.
«Figlio mio,
oggi compio un anno senza bere.
So che mi odi, e l’ho meritato.
Ma voglio che tu sappia una cosa: ogni giorno in cui non tocco alcol è un giorno in cui scelgo di essere il padre che avrei dovuto essere.
Anche se tu non mi perdonerai mai, io continuerò a scegliere la sobrietà.
Perché là fuori tu vivi la tua vita, e tua figlia cresce, e il pensiero di voi due rende ogni giorno senza alcol degno di essere vissuto.
Ti voglio bene. Mi dispiace.
– Papà»
La lettera era datata esattamente un anno dopo la nascita di Chiara.
Da allora, quattordici anni di sobrietà.
Quattordici anni di tentativi di riconciliazione respinti.
Luca ha posato la lettera sulla terra ancora smossa.
«Mi dispiace, papà. Mi dispiace davvero.» ha sussurrato.
Il giorno dopo ha chiuso lo studio per qualche settimana.
Ha iniziato un percorso psicologico.
Si è seduto per la prima volta in una riunione di familiari di persone dipendenti, per capire quella malattia che aveva catalogato solo come “egoismo”.
Con il tempo, insieme a Chiara, ha creato un fondo di sostegno intitolato a Giovanni Moretti, destinato ad aiutare persone in difficoltà economica durante i primi mesi di recupero.
Come quelli che Giovanni aveva aiutato con il poco che aveva.
Chiara ha iniziato a fare volontariato negli stessi gruppi dove il nonno accompagnava gli altri.
A volte indossa la vecchia giacca di Giovanni, quella con i loghi consumati, non di un club, ma delle associazioni di volontariato e dei percorsi di recupero.
«Mio nonno non è riuscito a salvare il rapporto con suo figlio» dice ai nuovi arrivati.
«Ma ha salvato quarantasette altre persone.
Non ha potuto essere mio nonno nella vita di tutti i giorni, ma dopo la sua morte mi ha insegnato cos’è il perdono e cosa significa ricominciare.»
Un anno dopo, nel giorno della morte di Giovanni, Luca si è presentato a una riunione del gruppo di recupero.
Non come alcolista, ma come uomo che aveva bisogno di capire, di ascoltare, di chiedere scusa.
Quando gli hanno messo in mano il piccolo gettone che segna il “primo giorno”, ha detto:
«Mi chiamo Luca, e non sono qui perché bevo.
Sono qui perché la mia rabbia ha ucciso mio padre molto prima del suo tumore.
È morto da solo perché io non ho saputo perdonare.
Voglio imparare a fare pace con la sua memoria e con chi lui ha aiutato, mentre io lo rifiutavo.»
La sala è esplosa in un applauso caldo.
E in mezzo a quel rumore, Luca ha giurato di sentire, per un istante, il suono lontano di una sirena e il rumore di una vecchia moto, come se il fantasma di suo padre gli dicesse: «Va bene così. Continua tu.»
La chiave del deposito ora è appesa al portachiavi di Luca.
Ogni mese passa da lì, apre un altro scatolone, scopre un’altra storia.
Ogni volta che trova una nuova persona salvata, la aggiunge a un libro che sta scrivendo:
«Il padre che ho seppellito due volte – viaggio di un figlio verso il perdono».
Tutti i proventi vengono versati nel fondo intitolato a Giovanni.
Perché è così che suo padre avrebbe voluto.
Questa è la forma che prende la redenzione, a volte.
Arriva tardi.
Arriva quando non c’è più nessuno da abbracciare.
Arriva sotto forma di impegno, di servizio, di mani tese ad altri sconosciuti.
Giovanni Moretti è morto da solo, in un monolocale silenzioso.
Ma il suo nome, oggi, vive nelle storie di chi ha salvato.
Nella voce di una nipote che lo difende.
E nel cuore di un figlio che ha capito troppo tardi che l’uomo di cui si vergognava era, in realtà, la sua più grande occasione di imparare cos’è davvero il perdono.






