Ha pagato la pasticcera per fingere di essere mamma per una settimana: ma quel sabato in pasticceria ha cambiato tutto

Ha pagato la pasticcera per fingere di essere mamma per una settimana: ma quel sabato in pasticceria ha cambiato tutto

Mia moglie ha abbandonato nostra figlia di quattro anni.
Per salvarle la festa di compleanno, ho pagato la ragazza della pasticceria perché fingesse di essere “una specie di mamma” per una settimana.
Ero disperato. Non avevo idea che tutto sarebbe finito con una bugia capace di salvarci… o distruggerci del tutto.

I suoi occhi, di un castano morbido e compassionevole, si indurirono appena.
«Signor Rinaldi,» cominciò, con voce bassa ma ferma, e capii subito di aver superato un limite. «Credo che mi stia scambiando per qualcuno che si può comprare.»

Sentii il calore salirmi dal collo fino alle orecchie. Aveva ragione. Stavo trattando tutto questo come una delle mie operazioni in azienda, un problema da risolvere con il portafoglio.

«No, io… mi scusi,» balbettai, e la mia solita sicurezza svanì nel nulla. «È che sono… disperato. Sono un padre, e sto fallendo.»

Lanciai uno sguardo verso Chiara, che in quel momento stava spiegando con grande serietà alla piccola aragosta nell’acquario accanto alla cassa tutta la complessa vita sociale dei pesci angelo. Era così felicemente inconsapevole.

«Guardi,» dissi, tornando a fissare Emma, la voce che mi si spezzava in gola. «Non lo sto chiedendo per me. Io posso sopportare la pietà. Posso sopportare i sussurri degli altri genitori. Tutti sanno che Alessia se n’è andata. Lo sanno. Ma Chiara… lei non capisce perché. Sa solo che la mamma non c’è più, e domani sarà l’unica bambina alla propria festa senza una mamma.»

L’espressione di Emma si addolcì. La difesa negli occhi lasciò il posto a una tristezza profonda, pesante.
«Quello che mi sta chiedendo… non è solo una bugia, signor Rinaldi,» disse piano. «È una recita. E una recita crudele… quando finisce.»

«È più crudele lasciarla seduta da sola,» ribattei, più duro di quanto volessi. «È solo una settimana. Chiamiamoli sette giorni. Lei viene alla festa. Si ferma nella dependance in giardino. È una casetta separata, completamente indipendente. Ceneremo insieme qualche volta. Le leggerà una storia. E poi… dovrà partire per un viaggio di lavoro, un viaggio lungo. Lo diluiremo. Io… io troverò il modo. Lo prometto.»

Stavo delirando, travolto da un fiume di piani confusi e disperati. Vidi la lotta sul suo viso: la ragione contro la compassione. Mi aveva detto poco prima di essere maestra di scuola dell’infanzia. I bambini li conosceva. Sapeva esattamente cosa le stavo chiedendo… e quanto poteva far male.

«Non posso,» sussurrò, scuotendo la testa. «Mi dispiace per sua figlia, davvero. Ma non posso essere quella persona.»

Si voltò per tornare al bancone, alla sua vita normale. Il cuore mi crollò in petto. Era finita. Anche l’ultima idea stupida era fallita. Chiara avrebbe avuto la sua festa, e io avrei passato tutto il tempo con un sorriso finto, guardando il cuore di mia figlia spezzarsi al rallentatore.

«Piange per addormentarsi,» dissi.

Emma si fermò. Era ancora di spalle.

«Quasi tutte le sere,» continuai, e ogni parola sembrava strapparmi un pezzo di gola. «Chiede della mamma. Chiede se è stata cattiva. Se è per quello che la mamma è andata via. Io le dico di no. Le dico che è perfetta. Che la sua mamma la amava. Ma lei ha quattro anni… domani ne compie cinque. E lo sa. Sa che sto mentendo anche su quello. Alessia non chiama da otto mesi. Non per Natale. Non per Pasqua.»

Mi passai una mano sul viso, sentendo la barba ispida di una giornata passata in riunioni, in un lavoro che all’improvviso mi sembrava vuoto.
«Sto solo cercando di darle un giorno. Un solo giorno in cui si senta intera. Un giorno in cui non sia ‘la bambina a cui la mamma è scappata’. È davvero così sbagliato?»

Nel piccolo laboratorio di pasticceria calò un silenzio denso. Si sentivano solo il ronzio dei frigoriferi e il bisbiglio soffocato di Chiara ai pesci.

Emma si voltò lentamente. Gli occhi le brillavano. Mi guardò davvero, per la prima volta: oltre il completo costoso, oltre il ruolo di dirigente. Vide solo un uomo che affogava.

«Una settimana,» disse, quasi senza voce.

Sbattei le palpebre. «Come?»

«Una settimana,» ripeté, più ferma. «E si seguono le regole. Le mie regole.»

«Qualsiasi cosa,» sussurrai, un’ondata di sollievo così forte da farmi girare la testa.

«Regola numero uno: io dormo nella dependance. Lei non ci entra. Io sono una sua dipendente per questi giorni, è un lavoro. Niente… situazioni ambigue.»

«Ovviamente,» annuii subito. «Niente di… del genere.»

«Regola numero due: mi paga quanto ha appena detto,» continuò, ripetendo la cifra che avevo sparato in preda al panico. «Ma non per me. Lo donerò al reparto di pediatria di un grande ospedale pubblico qui in città. Non lo faccio per guadagno.»

Rimasi spiazzato. «Va bene. Fatto.»

«Regola numero tre: diciamo a Chiara la verità. Non tutta. Ma una parte. Io non sono sua madre. Non fingerò di essere ‘Alessia’. Mi chiamo Emma. Sono… una nuova amica del papà. Un’amica speciale, venuta per aiutarla a festeggiare il compleanno.»

Esitai. «E se non ci crede? Gli altri genitori…»

«Degli altri genitori non mi interessa,» tagliò corto Emma, con voce affilata come l’acciaio. «Mi interessa lei. Non costruiremo tutto su una bugia che lei, presto o tardi, scoprirà da sola. Le diremo che sono Emma. Se gli altri adulti vogliono fraintendere… è un problema loro. Ma io non posso guardare quella bambina negli occhi e fingere di essere la sua mamma sparita. O si fa così, o me ne vado.»

Guardai Chiara, poi di nuovo Emma. Era meglio del mio piano. Più pulito.
«Ha ragione,» dissi piano. «Va bene. Emma. Un’amica speciale. Posso lavorarci.»

«Bene,» disse lei, tirando fuori un blocchetto dalla tasca del grembiule. «Scriva il suo indirizzo. Domani sarò lì alle dieci. Un’ora prima della festa.»

Scarabocchiai l’indirizzo della mia casa troppo grande, troppo vuota. Consegnarglielo mi sembrò come firmare il contratto più importante della mia vita.

«Emma,» mormorai, mentre infilava il foglietto nel grembiule. «Grazie.»

«Non mi ringrazi ancora, signor Rinaldi,» rispose lei, tornando al suo sorriso professionale da pasticceria, ma con gli occhi seri. «Questa è probabilmente la cosa più folle che abbiamo accettato tutti e due. Adesso… parliamo di quelle tortine?»

La mattina dopo ero un disastro.
Avevo passato la notte oscillando tra la convinzione di essere un genio e quella, molto più forte, di essere un mostro.

Avevo preparato Chiara con cura. «Amore, ho una sorpresa. Oggi alla tua festa verrà una mia amica speciale. Si chiama Emma.»

«È una mamma?» chiese subito lei.

«Lei… è una mia amica. Ed è felicissima di conoscerti.»

Il campanello suonò alle 10:01. Aprii la porta, e lei era lì. Emma. Non indossava la divisa da pasticceria. Portava un vestitino semplice, giallo chiaro, e sandali bassi. I capelli sciolti, che le cadevano in morbide onde sulle spalle. Era… bellissima. E terrorizzata.

Stringeva tra le mani un pacchetto perfettamente incartato.

«Ciao,» disse, con la voce un po’ tesa.

«Ciao,» risposi. «Entra.»

Chiara arrivò di corsa, con le calze spaiate e i capelli ancora scompigliati. «Sei Emma?»

Il volto di Emma si trasformò. La paura si sciolse, sostituita da quel calore sincero che avevo visto il primo giorno in pasticceria. Si inginocchiò per essere alla sua altezza.

«Sono io,» disse. «E tu devi essere Chiara. Mi hanno detto che oggi compi cinque anni.»

«Ho cinque anni!» annunciò Chiara, alzando la mano tutta aperta.

«Wow, è una cosa importantissima,» disse Emma, porgendole il regalo. «Questo è per te.»

Chiara strappò la carta in un secondo. Era un libro. Un’edizione illustrata, meravigliosa, di una storia su un coniglietto di pezza.

«Parla di come le cose diventano vere quando le ami davvero,» sussurrò Emma.

La gola mi si chiuse.

Chiara, la mia bambina che non abbracciava uno sconosciuto da otto mesi, si lanciò al collo di Emma. «Grazie!»

Le braccia di Emma si chiusero attorno a lei, forti, sicure. Poi alzò gli occhi verso di me, sopra la testolina di mia figlia. Nel suo sguardo c’era un messaggio chiarissimo:
Vede? Si fa così.

La festa fu un vortice di caos, zucchero e bambini urlanti.
Il castello gonfiabile che avevo affittato fu un successo immediato. Il buffet era perfetto, calibrato in ogni dettaglio.

Ma Emma… Emma fu una rivelazione.

Si muoveva con una naturalezza disarmante. Non stava recitando. Stava semplicemente… essendo se stessa. Aiutò un bambino che si era sbucciato il ginocchio. Organizzò un “Girotondo–Sedia” improvvisato quando la musica si fermò. Servì la torta, ridendo insieme ai bambini, con lo zucchero a velo sul naso.

E, soprattutto, fu il mio scudo.

Le “altre mamme”, le mogli dei miei clienti e dei membri del consiglio di amministrazione, arrivarono eleganti come sempre, con i loro profumi costosi e gli sguardi attenti.

«Lorenzo, caro!» esclamò Margherita, una di loro, scrutando Emma dall’alto in basso. «Non ci avevi detto che… frequentavi qualcuno.»

Prima che potessi inventarmi una risposta credibile, Emma le porse la mano con un sorriso gentile.

«Piacere, Emma,» disse. «Finalmente conosco qualcuna degli amici di Lorenzo. Me ne ha parlato tanto.»

Era una bugia semplice, ma geniale. Di me non sapeva quasi nulla.

Margherita rimase spiazzata per un istante. «Oh! E da quanto va avanti questa… storia?»

«Oh, mi sembra da sempre, vero?» rise Emma, infilando con naturalezza il braccio sotto al mio. Io mi irrigidii per un secondo, sorpreso, ma lei mi diede una piccola stretta d’avvertimento. Così mi rilassai e entrai nella parte.

«Lorenzo è sempre stato pieno di lavoro, e io ho appena finito l’anno scolastico alla materna… ci stiamo semplicemente godendo un po’ di tempo insieme prima di… beh, si sa,» aggiunse con una strizzatina d’occhio, lasciando uno spazio enorme per le loro fantasie.

Erano catturate. Nei loro occhi lessi la storia che si stavano raccontando: lei era la “nuova”, dolce, concreta maestra d’asilo, la perfetta alternativa alla mia ex moglie distante e fredda. Ci credevano. Senza bisogno che noi dicessimo niente.

Ma la parte più incredibile non era la recita con gli adulti. Era guardarla con Chiara.

Quando arrivò il momento della torta, Chiara si sedette alla testa del tavolo. Io stavo dietro di lei, con l’accendino in mano.

«Aspetta!» gridò Chiara, proprio mentre stavo per accendere le candeline. «Emma!»

Emma, che stava sparecchiando piatti di plastica, corse vicino. Chiara le afferrò la mano.

«Devi stare accanto al papà.»

Così ci trovammo in piedi, uno da una parte, uno dall’altra. Le fotocamere di una ventina di telefoni si alzarono in aria. Un click dopo l’altro.
Eravamo un quadretto perfetto. La famiglia felice.

Mi faceva male il petto. Era una bugia. La più bella bugia che avessi mai visto.

Quella sera, dopo che l’ultimo ospite se ne fu andato e dopo che Chiara si addormentò circondata da un mucchio di regali “grandi come una mamma vera”, andai nella dependance.

Emma stava preparando la sua borsa, piegando con cura i pochi vestiti che aveva portato.

«La festa è finita,» disse, senza guardarmi. «Quando Chiara si sveglia io non ci sarò. Può cominciare a raccontarle del ‘viaggio di lavoro’.»

«No,» dissi.

Si fermò. «Come, no? L’accordo era per la festa.»

«L’accordo era per una settimana,» ribattei, appoggiandomi allo stipite della porta. «Oggi è stato… incredibile. Non ho visto Chiara così felice da…»

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