La frase mi morì in gola.
«Si è affezionata, Lorenzo,» disse Emma, con la stanchezza dipinta in volto. «Mi ha abbracciata prima di andare a letto. Mi ha chiesto se sarei stata qui anche per colazione.»
«E tu che cosa le hai detto?»
«Le ho detto ‘vedremo’. Un’altra bugia.»
«Resta,» dissi io. «Resta solo la settimana. Come abbiamo deciso. Lascia che se la goda. Solo qualche giorno in più.»
Emma mi guardò, in silenzio. Nel buio morbido della piccola stanza non riuscivo a leggere la sua espressione.
«È un errore,» disse infine.
«Lo so,» risposi. «Ti prego.»
Sospirò. Un sospiro lungo, profondo, che sembrava portare sulle spalle il peso del mondo.
«Va bene. La settimana. Ma Lorenzo… dopo, me ne vado. Devi preparare lei. E devi preparare te stesso.»
Annuii, ma sentii dentro di me un gelo sottile, tenace. Aveva ragione. Era un errore. Ma non per i motivi che pensava lei.
L’errore era che, nel guardarla tutto il giorno con mia figlia, nel vederla rispondere alle domande dei miei “amici” pesanti come squali, nel sentirla ridere con la crema sul naso… non stavo più pensando a Chiara.
Stavo pensando a me.
I sei giorni successivi furono una forma raffinata di tortura dolce.
Entrammo in un ritmo domestico strano e meraviglioso. Mi svegliavo e trovavo Emma già in cucina, nella casa principale, che preparava il caffè. Seduta al tavolo, sfogliava il giornale e, senza alzare lo sguardo, mi passava direttamente le pagine di economia.
«A Chiara piacciono i pancake con le gocce di cioccolato, ma solo il martedì,» mormorava.
«Come fai a saperlo?» chiedevo io, ogni volta stupito.
«Me l’ha detto lei. Basta ascoltarla.»
Presi una settimana di ferie. La mia assistente quasi svenne al telefono, ma non mi importava.
In quei giorni… diventammo una famiglia.
Portammo Chiara al parco. Emma la spingeva sull’altalena, e io provai una fitta di gelosia così forte da togliermi il fiato. Volevo essere io a far ridere entrambe così.
Guardammo cartoni animati. Costruimmo una fortezza di cuscini in salotto, su un tappeto che certamente non era stato pensato per essere calpestato da piedini sporchi di cioccolato. Emma e Chiara si addormentarono lì, abbracciate sotto una coperta, e io rimasi sul divano per un’ora a guardarle, con un sentimento nuovo, feroce, che non sapevo definire.
Era… facile. Terribilmente facile.
Emma non era niente come Alessia.
Alessia adorava i gala di beneficenza, le scuole “giuste”, le foto perfette per i social. Il suo amore era sempre un po’ condizionato, sempre un po’ contrattato.
L’amore di Emma era… lì. Punto.
Era nel modo in cui ritagliava la crosta del panino di Chiara perché «le dà fastidio quando morde».
Era nel modo in cui discuteva, con serietà, se fosse meglio leggere la sera “Buonanotte, luna” o la storia del coniglietto di pezza, come se si trattasse di una decisione di Stato.
E parlavamo.
La sera, dopo che Chiara si addormentava, sedevamo sul terrazzo. Lei con una tazza di tisana, io con un bicchiere di whisky.
Mi raccontava della sua vita. Di quando era bambina in un paesino di provincia. Del suo sogno di aprire una scuola per bambini con bisogni speciali. Del suo fidanzamento finito male con un uomo che «amava l’idea di me», come disse, «ma non la realtà.»
«Voleva una moglie che organizzasse cene per il suo capo,» disse, guardando le stelle. «Non una che torna a casa con i capelli sporchi di tempera e la faccia piena di brillantini.»
«A me i brillantini piacciono,» dissi, la voce più roca del solito.
Sorrideva, un sorriso piccolo e un po’ triste. «Questo non è vero, Lorenzo.»
«Cosa?»
«Quello che stiamo vivendo.» Scosse leggermente la testa. «Non è reale.»
«Sembra reale,» dissi io.
«Oggi è il sesto giorno,» mi ricordò. «Domani è il settimo. Il contratto scade.»
«E se io non volessi che scadesse?»
Le parole uscirono da sole, senza permesso, e restarono sospese nell’aria fresca della sera.
Emma si alzò in piedi. «Non… non lo renda più difficile di quanto è già. Devo andare a fare la valigia.»
Mi lasciò lì, al buio, con il ghiaccio che tintinnava nel bicchiere vuoto.
Giorno sette.
Mi svegliai in una casa silenziosa. Troppo silenziosa.
La porta della dependance era spalancata. La sua borsa non c’era più.
Il panico mi morse allo stomaco. Era andata via. Se n’era andata di nascosto, proprio come aveva fatto Alessia.
Corsi di nuovo nella casa principale, il cuore in gola. «Emma?»
La cucina era vuota. Ma… il caffè era pronto. Sul bancone, un biglietto.
Lorenzo,
sono una codarda. Non sono riuscita a salutarla.
Sono in pasticceria, ho il turno del sabato.
Mi dispiace tantissimo.
Le chieda di perdonarmi.
Le dica che mi mancherà.
– E.
Lo lessi tre volte.
Poi sentii un rumore lieve.
«Papà?»
Chiara era sulla soglia della cucina, con gli occhi ancora gonfi di sonno e l’orsacchiotto stretto al petto. «Dov’è Emma? Oggi è il sabato dei pancake.»
Il cuore mi si spezzò. La bugia era finita. Era ora di pagare il conto.
«Amore…» cominciai, inginocchiandomi davanti a lei.
«Se n’è andata, vero?»
La saggezza dei bambini. È un coltello affilato.
«Sì, amore. Doveva andare a lavorare.»
«Come la mamma?»
Maledizione. «No. Non come la mamma. Emma… Emma doveva tornare a casa sua. Al suo lavoro. Alla sua… vita.»
Il labbro inferiore di Chiara cominciò a tremare. «Ma… è nostra amica. Doveva restare.»
«Lo so, tesoro. Lo so.»
«Io la amo,» sussurrò. La prima lacrima le scivolò sulla guancia.
E quello fu il punto.
Non ce l’ho fatta.
Non avrei permesso che un’altra persona entrasse e uscisse dalla sua vita lasciando lo stesso vuoto.
«Vai a metterti le scarpe,» dissi.
«Cosa?»
«Le scarpe. Sbrighiamoci o faremo tardi.»
«Tardi per cosa?»
«Per i pancake.»
La pasticceria era piena. Classico sabato mattina.
La vidi dalla vetrina. Emma, con i capelli raccolti in uno chignon ordinato, di nuovo nella divisa color crema. Sembrava un’altra persona. Era la pasticcera. Non… la “mia” Emma.
Chiara spalancò la porta ed entrò di corsa prima che potessi fermarla.
«EMMA!»
L’intero locale tacque all’istante. Tutti i clienti si voltarono.
Emma si immobilizzò, con un vassoio di cornetti in mano. I suoi occhi incrociarono i miei al di sopra della testa di un signore in fila. Erano spalancati, terrorizzati.
Chiara aggirò il bancone senza pensarci un secondo – violando ogni norma di igiene – e si strinse alle gambe di Emma.
«Ti sei dimenticata!» pianse nel grembiule. «Ti sei dimenticata il sabato dei pancake!»
Emma lasciò cadere il vassoio. I cornetti si sparpagliarono sul pavimento.
Lei si inginocchiò, stringendo Chiara in un abbraccio così forte da sembrare quasi doloroso. Le spalle le tremavano.
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