Ha strappato il suo gilet pieno di distintivi per avvolgere una neonata abbandonata dietro il bar.
In quel momento ho capito che quell’uomo, che tutti in paese temevano un po’, non era solo un motociclista: era un padre che non aveva ancora smesso di esserlo.
Guardavo dalla finestra del mio monolocale quando l’ho visto.
Bruno, enorme, barba grigia e tatuaggi sulle braccia, in piedi nel parcheggio dietro il Bar Stella d’Inverno. Il suo gilet di pelle era famoso in tutta la zona: quarant’anni di raduni, chilometri, raccolte fondi, piccoli distintivi cuciti uno sull’altro. Un pezzo di vita.
E lui lo stava tagliando a strisce con un coltello, sotto il lampione giallastro.
Solo dopo ho visto perché.
Ai suoi piedi, vicino ai cassonetti, c’era qualcosa di minuscolo avvolto in una coperta sottile, praticamente bagnata dalla condensa notturna. Un fagottino che si muoveva a malapena.
Poi ho sentito il pianto. Debole, spezzato, ma chiaramente umano.
Un neonato.
Bruno si è inginocchiato sull’asfalto freddo, le mani grosse che tremavano mentre infilava quelle strisce di pelle sotto e sopra il corpicino per creare una specie di nido caldo.
Intorno a lui gli altri del gruppo – li chiamano “Lupi della Strada”, un’ associazione di motociclisti che fa giri di beneficenza e raccolte viveri quando c’è un’alluvione – erano immobili. Sapevano cosa significavano quei distintivi. Non si toccano, non si tagliano, non si buttano. Sono memoria, appartenenza, famiglia.
Ma Bruno non ha esitato nemmeno un secondo.
«Chiama il 118!» ha urlato a un ragazzo con il giubbotto di pelle, la voce rotta. «Adesso!»
Io vivo sopra il bar da dieci anni. Affitto basso perché il rumore delle moto la sera non piace a nessuno. A me non dà fastidio: faccio i turni di notte in ospedale, reparto medicina, quindi spesso quando loro escono, io sto ancora bevendo il caffè prima di andare al lavoro.
Quella notte però non era come le altre.
Era un martedì di novembre, quasi le due. Freddo umido che entra nelle ossa. Il locale era chiuso da un pezzo, nel parcheggio erano rimaste solo tre moto e il furgoncino del fornitore.
Poi ho sentito la voce di Bruno. Non il solito tono scherzoso, profondo, che attraversa il cortile. Era un grido strozzato, disperato.
Ho afferrato d’istinto la mia borsa con il materiale di pronto intervento che tengo sempre vicino alla porta e sono corsa giù per le scale in pantofole e felpa.
Quando sono arrivata dietro il bar, li ho visti.
Bruno, in ginocchio, le mani sporche di polvere e asfalto, piegato su una neonata grande quanto un braccio. Il suo gilet era a brandelli, diventato una coperta improvvisata.
«Sono un’infermiera,» ho detto, buttandomi accanto a lui sul pavé freddo.
Mi ha guardata con gli occhi lucidi. Due righe di lacrime gli scendevano nella barba.
«Era in una busta vicino al cassonetto,» ha sussurrato, come se avesse paura a dirlo ad alta voce. «In una busta della spazzatura. Chi può fare una cosa del genere?»
Ho preso la piccola tra le mani, il più delicatamente possibile. Era gelata. La pelle arrossata, il respiro rapido e poco profondo. Il cordone ombelicale era ancora lì, legato alla meglio. Aveva forse poche ore di vita.
«Tiene duro, piccolina,» le ho sussurrato. «Ci siamo.»
Uno dei ragazzi teneva già il telefono all’orecchio, parlava veloce con l’operatore del 118. Gli altri avevano fatto cerchio, creando una barriera contro il vento.
Cinque uomini con le mani rovinate dal lavoro, con i giubbotti consumati, che sembravano un muro di pietra intorno a quel pezzo di vita tremante.
«Dobbiamo tenerla calda,» ho detto. «Bruno, continua a coprirla con il gilet. Io le controllo il respiro.»
Lui ha annuito, pronto a strappare anche l’ultima parte se fosse servito.
L’ambulanza è arrivata in pochi minuti, ma a noi sono sembrati un’eternità.
Quando i sanitari sono scesi, uno di loro ha provato a prendere la bambina dalle braccia di Bruno.
«Vengo anch’io,» ha detto lui, senza alzarsi. La voce bassa, decisa.
«Signore, dobbiamo lavorare, non c’è spazio per—»
«Io l’ho sentita piangere. Io l’ho trovata. Non la lascio sola. Mi metto dove volete, ma vengo.»
Si sono scambiati uno sguardo veloce. L’urgenza non lasciava tempo a discussioni inutili.
«Va bene, salga dietro con noi. Ma ci lasci fare il nostro lavoro.»
Io li ho seguiti con la mia macchina. Era più forte di me: volevo sapere che fine avrebbe fatto quella bambina avvolta in un gilet distrutto.
In ospedale l’hanno portata subito in terapia intensiva neonatale.
La dottoressa Laura Ferri, che conoscevo di vista da anni, è uscita verso le sei del mattino con le occhiaie e il camice sgualcito.
Bruno era seduto in sala d’attesa da ore, le mani giunte, lo sguardo fisso a una macchinetta del caffè spenta.
«Allora?» ha chiesto, appena l’ha vista.
«È stabile,» ha risposto lei, con quel tono professionale ma dolce che usa con i parenti. «Molto piccola, direi intorno alle trentadue settimane di gestazione. Era in ipotermia, ma sta reagendo bene. Dovrà restare con noi a lungo, ma… è una combattente.»
Ho sentito Bruno esalare un respiro che sembrava trattenere da ore.
«Ha già un nome?» ha chiesto piano.
«Per ora no,» ha risposto la dottoressa. «Nei documenti la indicheremo come “Neonata ignota”. Ma qui dentro le nostre infermiere le danno già un soprannome.»
«Quale?» ho chiesto io, incuriosita.
Laura ha sorriso. «Speranza.»
In inglese lo chiamano Hope. Ma in italiano, sulle labbra di una dottoressa stanca all’alba, “Speranza” suonava come una promessa.
«Che ne sarà di lei adesso?» ha chiesto Bruno dopo un attimo di silenzio.
«Quando sarà fuori pericolo, interverranno i servizi sociali,» ha spiegato la dottoressa. «Affido, casa famiglia, forse adozione. Seguirà il tribunale per i minorenni.»
«No,» ha detto lui. Non alzava la voce, ma la stanza ha smesso di respirare.
«Come, no?» ha chiesto Laura, sorpresa.
«Non la mando “nel sistema”,» ha mormorato, cercando le parole. «La prendo io.»
La dottoressa ha sospirato, abituata a proposte impossibili dette a caldo.
«Signor…?»
«Bruno Costa.»
«Signor Costa, capisco quello che prova, ma non funziona così. Ci sono procedure, graduatorie, valutazioni. Lei non è un parente.»
«Sono l’unico che stanotte l’ha sentita piangere,» ha ribattuto. «L’unico che si è fermato. L’unico che l’ha tenuta in braccio. Per me questo conta più di un cognome.»
Io ero seduta poco distante, a guardare quell’uomo che avevo sempre conosciuto come “Bruno il Lupo”, il motociclista che organizzava le grigliate in piazza e i giri benefici con i “Lupi della Strada”.
Non lo avevo mai visto così piccolo dentro un corpo così grande.
«Lei ha esperienza con i bambini?» ha chiesto Laura.
Bruno è rimasto in silenzio qualche secondo. Poi ha scosso la testa.
«No.»
«È sposato?»
«No.»
«Vive da solo?»
«Sì. In un bilocale sopra la mia officina di moto.»
«Ha mai avuto problemi con la giustizia?»
Ha deglutito.
«Quando ero giovane, sì. Qualche rissa, qualche stupidaggine. Tutto chiuso da anni. Non bevo più da tanto.»
Laura ha fatto un mezzo sorriso triste.
«Capisce che, sulla carta, non è il profilo ideale per l’affido di una neonata.»
Bruno ha abbassato lo sguardo verso il pavimento lucido. Sembrava voler scegliere le parole una per una.
«Ventisette anni fa,» ha iniziato piano, «avevo una figlia. Si chiamava Giulia. Aveva tre anni quando è morta per una malattia del sangue.»
La sala d’attesa è diventata silenziosa.
«Le promisi che avrei aiutato altri bambini, un giorno. Che avrei fatto qualcosa di buono, invece di restare arrabbiato con il mondo. Ma non l’ho fatto. Ho buttato via anni tra rabbia e motori. Stasera… quando ho sentito il pianto vicino ai cassonetti… è stato come se Giulia mi chiamasse. Come se mi dicesse: “Adesso, papà”.»
Si è passato una mano sul volto.
«Non so se la legge me lo permetterà. Ma se c’è anche solo una possibilità, io ci provo. Mi insegni quello che devo imparare. Faccio corsi, firmo carte, partecipo a incontri. Qualsiasi cosa.»
Laura lo ha guardato a lungo.
«Parlerò con l’assistente sociale,» ha detto infine. «Non le prometto niente. Ma a volte… succedono cose che non sono scritte nei regolamenti.»
Quello che è successo dopo ha sorpreso tutti.
Per undici mesi, Bruno è venuto in ospedale ogni singolo giorno.
Arrivava con il casco sotto braccio e un sacchetto di brioche per le infermiere. Si disinfettava le mani, indossava il camice monouso e andava dritto davanti all’incubatrice di Speranza.
All’inizio la guardava soltanto, con le mani appoggiate al vetro.
Poi ha iniziato a imparare.
Le infermiere gli hanno insegnato a cambiare un pannolino minuscolo senza staccare i tubicini. A tenere la neonata sul petto, “pelle contro pelle”, facendo attenzione ai fili. A riconoscere un respiro affaticato, un colorito che cambia. A dare il biberon quando finalmente lei è stata abbastanza forte da rinunciare alla sonda.
«Ho fatto corsi di guida sicura, di pronto soccorso sulle strade, di tutto,» mi ha detto una sera, mentre aspettavamo insieme nel corridoio. «Ma non ho mai studiato così tanto come per questo cosino di tre chili.»
Non era solo.
I “Lupi della Strada”, quei motociclisti che molti in paese liquidavano come “gente rumorosa che non ha niente da fare”, si sono organizzati a turni.
Ogni pomeriggio c’era qualcuno di loro in reparto: uno leggeva filastrocche vicino all’incubatrice, uno teneva Bruno con i piedi per terra quando la paura lo divorava, uno portava pacchi di pannolini e tutine comprate al mercato.
Altri moto club della regione, quando hanno saputo la storia, hanno mandato pacchi: vestitini, latte in polvere, copertine fatte all’uncinetto da nonne che non avrebbero mai visto Speranza ma che ormai la chiamavano così come se fosse di famiglia.
Una piccola comunità che di solito si vedeva solo durante i raduni estivi si era trasformata in una strana, rumorosa famiglia allargata.
Intanto Bruno si era messo in regola.
Ha smesso di bere. Del tutto. «Se la prendo in casa, non ci deve essere ombra di bottiglia,» mi ha detto secco.
Ha fatto i corsi per aspiranti affidatari organizzati dal Comune. Ha visto psicologi, assistenti sociali, educatori. Ha portato perizie mediche, certificati penali aggiornati, dichiarazioni dei redditi.
Poi ha fatto qualcosa che nessuno si aspettava.
Ha venduto tre delle sue moto storiche, quelle che lucidava la domenica mattina come fossero reliquie.
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