Con i soldi ha affittato una casetta a schiera a due passi da una scuola dell’infanzia e dal parco. Due camere, un piccolo giardino, una cucina grande.
«La stanza grande è per lei,» mi ha detto, mostrandomi le foto sul telefono. «Io mi accontento di quella piccola.»
Il giorno dell’udienza al tribunale per i minorenni, la sala era piena.
C’erano Bruno e il suo avvocato, un signore sui cinquant’anni che normalmente si occupa di cause di lavoro ma che per questa storia aveva accettato di essere pagato “come può, il resto si vedrà”.
C’erano i “Lupi della Strada”, entrati uno alla volta in giacca pulita, senza caschi né rumore di scarichi, seduti composti sulle panche del fondo.
C’erano la dottoressa Ferri e due infermiere della terapia intensiva, in abiti civili ma con ancora addosso la stanchezza dei turni.
C’era l’assistente sociale che aveva seguito il caso, la signora Rinaldi, che all’inizio era scettica e ora aveva gli occhi lucidi ogni volta che vedeva Bruno con Speranza in braccio.
E c’ero io, in fondo, in camice sotto il cappotto perché ero appena uscita dal turno di notte.
Il giudice, un uomo sulla sessantina con occhiali sottili, ha ascoltato in silenzio.
Il pubblico ministero ha fatto il suo lavoro.
«Signor Costa,» ha detto, sfogliando un fascicolo, «lei ha quasi sessantacinque anni.»
«Sì.»
«Vive da solo, senza compagna.»
«Per ora sì.»
«Ha avuto in passato denunce per rissa e danneggiamento.»
«Sì. Ho fatto errori. Ho anche pagato.»
«È il presidente di un’associazione di motociclisti che organizza raduni molto rumorosi, spesso visti con sospetto dai cittadini.»
Bruno ha annuito, senza difendersi.
«Lei capisce che, sulla carta, non è il candidato ideale per crescere una bambina che ha bisogno di stabilità, cure e un ambiente tranquillo?»
Lui ha preso fiato.
«Capisco cosa dice la carta,» ha risposto. «Capisco anche cos’ha scritto nei documenti. Ma la carta non era lì quella notte, vicino ai cassonetti.»
Si è alzato in piedi, alto, con il vestito che gli stava un po’ stretto sulle spalle larghe.
«Ero io. Ero io che ho sentito quel pianto. Io che ho aperto quella busta. Io che ho tolto il mio gilet, il simbolo di tutta la mia vita, e l’ho strappato senza pensarci per tenerla calda.»
Si è interrotto un secondo per deglutire.
«Sono sobrio da trecento e passa giorni grazie a lei. Ho venduto le moto che amavo di più per darle una casa. Ho imparato a leggere esami del sangue, a capire un saturimetro, a cambiare pannolini alle tre di notte. Non sono perfetto, non sono giovane, non sono quello che i moduli definirebbero “ideale”.»
Ha guardato il giudice dritto negli occhi.
«Ma quando nessuno la voleva, io l’ho voluta. Quando era solo un numero di cartella clinica, io la chiamavo per nome. Ho fatto questa scelta ogni singolo giorno da quando l’ho trovata. E continuerò a farlo finché avrò fiato.»
Il pubblico ministero ha mostrato alcune foto stampate: Bruno con altri motociclisti ai raduni, con le braccia tatuate, i giubbotti di pelle.
«È questo il modello che vuole dare a una bambina?» ha chiesto, rivolto al giudice.
Laura Ferri si è alzata.
«Posso dire una cosa, vostro onore?»
Il giudice ha annuito.
«In trent’anni di reparto,» ha detto lei, «ho visto tanti genitori biologici sparire dopo il primo giorno. E ho visto volontari restare, anche quando non erano tenuti a farlo. Il signor Costa non ha perso un solo giorno. Non una sola visita. Si è preso insulti, difficoltà, controlli su controlli. E non è scappato.»
La signora Rinaldi, l’assistente sociale, ha chiesto a sua volta la parola.
«Quando l’ho conosciuto, ero tra i più scettici,» ha confessato. «Ho pensato: “Ancora un uomo che si emoziona un attimo e poi sparisce”. Mi sbagliavo. Ha superato ogni colloquio, ha accettato ogni osservazione, ha cambiato casa, abitudini, perfino il lavoro per poter conciliare orari e bisogni della bambina. Non posso garantire il futuro, ma posso dire che oggi, tra le tante famiglie che seguiamo, il signor Costa è uno di quelli che più mi rassicura.»
Il giudice ha ascoltato tutto, senza interrompere.
Alla fine ha sfogliato le sue carte, poi ha alzato lo sguardo.
«Ho letto le relazioni, i certificati, le perizie psicologiche,» ha detto. «Ho letto anche le lettere.»
Ha sollevato un fascicolo spesso.
«Ne sono arrivate più di settecento: vicini di casa, colleghi, medici, infermieri, insegnanti, persone che hanno incontrato il signor Costa in questi mesi. Ho letto testimonianze di motociclisti che non si sono mai conosciuti tra loro ma che si sono sentiti parte di qualcosa vedendo quello che sta succedendo intorno a questa bambina.»
Si è fermato un attimo.
«La legge parla di “interesse superiore del minore”. Non sempre è facile capire cosa sia. In questo caso, però, una cosa è chiara: questa bambina ha già trovato una famiglia. Una famiglia diversa da quella delle fotografie delle pubblicità, ma non per questo meno vera.»
Ha preso un foglio, lo ha firmato, poi ha guardato Bruno.
«Dispongo l’affido del minore, Speranza, al signor Bruno Costa, con percorso di adozione piena da verificare nel tempo. È una decisione che prendo con attenzione, ma anche con fiducia.»
Per un secondo nessuno ha parlato.
Poi ho visto Bruno portarsi le mani al viso. Le spalle larghe hanno tremato. Un uomo che aveva affrontato incidenti, tempeste, notti intere in piedi a fare il volontario dopo le frane, piangeva come un bambino.
I “Lupi della Strada” si sono alzati uno dopo l’altro. Non minacciosi. Solo presenti. Un muro di giacche di pelle e occhi lucidi.
La dottoressa Ferri e le infermiere si abbracciavano. L’assistente sociale si asciugava le lacrime dietro gli occhiali.
Io, in fondo alla sala, mi sono resa conto che stavo stringendo le mani così forte da farmi male.
Oggi Speranza ha due anni.
Cammina traballando tra le moto parcheggiate davanti all’officina di Bruno, con un giubottino di finta pelle fatto su misura. Sul retro c’è una toppa con scritto «Piccola Stella».
Quando arriva qualcuno in moto, lei lo saluta con la manina. Tutti le rispondono. Alcuni suonano il clacson, altri alzano solo la mano dal manubrio. Tutti la conoscono.
Per lei non sono “motociclisti”. Sono “zio Marco”, “zio Leo”, “zio Sandro”. Un esercito di zii un po’ spettinati che si mettono in fila per farle vedere come gira una ruota, come si pulisce un casco, come si gonfia un palloncino alla festa del paese.
Hanno aperto un libretto di risparmio a suo nome. Ogni volta che fanno una raccolta fondi, una piccola parte va lì dentro. «Per quando vorrà studiare,» dicono.
Bruno non ha più il suo vecchio gilet pieno di distintivi. Quel pezzo di pelle giace in una scatola, in officina, ormai irriconoscibile. Ma durante una festa di fine estate, i “Lupi della Strada” gliene hanno consegnato uno nuovo.
Sopra, invece dei soliti simboli, c’era solo una grande scritta ricamata:
PAPÀ DI SPERANZA
Lo indossa tutti i giorni.
Ogni tanto, quando finisco il turno di notte, passo dall’officina per bere un caffè seduta su una cassa di attrezzi. Speranza gioca sul tappeto con una piccola moto di plastica. Bruno la guarda come se non riuscisse ancora a credere che sia reale.
«Dimmi la verità,» gli ho chiesto una volta. «Quella notte, quando hai strappato il gilet… non hai avuto nemmeno un secondo di esitazione?»
Lui ha alzato le spalle.
«Quarant’anni di pezzi di stoffa,» ha detto. «Una vita intera di errori, di orgoglio, di testardaggine. E dall’altra parte cinque minuti di freddo in meno per lei. Non c’era partita.»
L’ha presa in braccio. Lei gli ha afferrato la barba con le mani appiccicose e ha riso.
«La verità?» ha aggiunto. «Lei mi ha salvato almeno quanto io ho salvato lei.»
E forse è questo che ho imparato da tutta questa storia.
Non si tratta di moto, di giubbotti, di club. Né di quello che la gente vede passando davanti a un bar rumoroso in una sera d’estate.
Si tratta di chi si ferma quando sente un pianto. Di chi sceglie di restare quando sarebbe più facile voltarsi dall’altra parte. Di chi trasforma un gilet pieno di ricordi in una coperta per dare una seconda possibilità a qualcuno che ha appena iniziato a vivere.
Speranza inizierà la scuola materna l’anno prossimo.
Bruno è già agitato all’idea dei colloqui con le maestre.
«E se mi guardano male?» mi ha chiesto, l’altro giorno. «Se vedono la barba, le cicatrici, i tatuaggi…»
Ho riso.
«Possono guardarti come vogliono,» gli ho risposto. «Ma se avranno qualcosa da ridire, gli ricorderai solo una cosa: la notte in cui tutti dormivano e tu hai buttato via il tuo vecchio io per salvare tua figlia.»
Lui ha sorriso, quel sorriso raro che sembra aprire il suo viso come una finestra al sole.
«E se non basta?»
«Allora,» ho detto, «potranno parlare con tutti gli zii di Speranza.»
Ride ancora.
«Ormai ho perso il conto,» mormora. «E credo che ne arriveranno altri. Perché una bambina come lei non ha solo un padre. Ha una tribù.»
Una tribù un po’ stonata, rumorosa e piena di cicatrici. Ma pronta, ogni volta che serve, a strappare un altro pezzo di sé per farle strada.






