Ha trovato un bambino sulla tomba di sua moglie: quella foto spiegata tra le sue mani gli distrugge ogni certezza

Il pensiero che Sara avesse fatto quel tragitto segreto con un bambino sconosciuto lo stordì.

– Da dove sei venuto, stasera?

– Dal centro. La casa-famiglia… si chiama Casa San Luca.

– E ci sei arrivato a piedi? Da lì fino al cimitero?

Leo annuì appena. Marco strinse la mascella. Casa San Luca era a più di quattro chilometri.

– Ti porterò da qualche parte a riposare.

Disse, senza distogliere lo sguardo dalla strada.

– Dove?

– In un posto dove dormire e scaldarti.

Leo si accese a metà.

– Un vero albergo? Con la televisione?

Marco provò un senso di disagio.

– Solo una stanza. Niente di speciale.

Il bambino non sembrò ascoltarlo davvero.

– E poi?

Marco tenne gli occhi fissi sulla strada.

– E poi, domattina, andrò a Casa San Luca. Voglio capire esattamente che rapporto avevi con mia moglie.

Leo serrò le labbra e tornò a guardare fuori. Marco ebbe la netta sensazione che il bambino sapesse molto di più, ma decise di non incalzarlo. Non quella notte.

Poi, all’improvviso, rallentò. Guardò gli alberi neri oltre il fiume, le luci sparse sul versante della collina. Pensò a una stanza anonima di albergo, a un bambino solo in un letto estraneo, con in mano la foto di Sara.

Girò il volante.

Quando fermò il pick-up, non era davanti a una pensione, ma sotto il suo palazzo: un vecchio edificio industriale trasformato in loft moderni, vicino al centro.

Non ce la faceva a lasciarlo altrove.


Marco non aveva chiuso occhio.

Era seduto sulla poltrona del soggiorno, ancora in camicia, la tazza di caffè ormai fredda sul tavolino. Fuori, l’alba grigia stava cominciando a filtrare dalle ampie finestre del loft.

Leo dormiva nella stanza degli ospiti. Una stanza che non veniva usata da anni, da quando i genitori di Sara erano venuti a passare un Natale lì.

Marco guardò l’orologio: le otto.

Basta rimandare.

Si alzò, stirando la schiena dolorante, e andò verso la stanza.

La porta era socchiusa. Vide Leo seduto sul letto, la fotografia ancora stretta tra le dita.

– Buongiorno.

Disse, bussando leggermente sullo stipite. Leo sobbalzò.

– Ciao.

Mormorò, strofinandosi gli occhi.

– Hai dormito un po’?

Chiese Marco, provando a mantenere un tono neutro. Leo fece spallucce.

– Il letto è… morbidissimo.

Marco provò un’altra fitta di disagio.

– Metti il giubbotto. Andiamo a Casa San Luca. Io ho bisogno di risposte.

Un’ora dopo, parcheggiavano davanti a un edificio basso, di mattoni, in una zona meno fortunata della città. Un’insegna semplice indicava “Casa San Luca – Comunità per Minori”.

Una donna di mezza età, con i capelli raccolti alla meglio e un cardigan un po’ consumato, alzò lo sguardo quando entrarono. Appena vide Leo, gli occhi le si riempirono di sollievo.

– Leo! Ci hai fatto prendere un colpo! Ci siamo preoccupati tantissimo quando sei sparito!

Marco avanzò, e la sua presenza riempì l’ingresso.

– Mi chiamo Marco Rinaldi. L’ho trovato io. Devo parlare con lei di lui… e di mia moglie. Di Sara Rinaldi.

Il volto della donna – la signora Bianchi, come avrebbe saputo poco dopo – cambiò espressione. Una tristezza dolce, rassegnata.

– Sara… Oh, cielo. Certo. Prego, venga nel mio ufficio.

Lo condusse in una stanza piccola, piena di faldoni, che odorava di caffè solubile.

Prese un raccoglitore spesso da un armadietto, poi lo guardò con uno sguardo che conteneva qualcosa di antico.

– Sara è stata nostra volontaria per anni. Per Leo era… quasi un angelo.

– Cosa intende?

La voce di Marco era una linea tesa.

– Era in corso la procedura per adottarlo, signor Rinaldi.

Quelle parole caddero nella stanza come un peso insostenibile.

– Adottarlo?

Riuscì solo a ripetere, con un filo di voce.

– Sì. Lo adorava. Diceva che… non aveva ancora trovato il momento giusto per parlarne con lei. Che lei era sempre preso dal lavoro. Che voleva dirglielo quando tutto fosse pronto.

«Preso dal lavoro».
Quella frase lo colpì come un’accusa diretta.

Si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla scrivania, mettendosi le mani sul volto. Sara stava costruendo una nuova vita, una nuova famiglia, e lui non se n’era accorto. Gli salì un’ondata di nausea.

– Posso vedere il fascicolo?

La signora Bianchi glielo porse. Dentro c’erano i moduli per l’adozione, le relazioni, tutte firmate da Sara, con la sua grafia elegante.

Leo, che fino a quel momento era rimasto in piedi in silenzio, fece un passo avanti e sussurrò:

– Mi aveva detto che… che lei mi sarebbe piaciuto. Quando l’avrebbe saputo.

Marco guardò il viso di quel bambino, pieno di speranza e paura allo stesso tempo, e poi la firma di Sara.
Preso dal lavoro. Distratto. Assente.

Si alzò di scatto.

– Grazie. Ora devo… pensarci. Lo porto con me.

La signora Bianchi annuì piano, con un’espressione che diceva chiaramente che aveva già visto troppi bambini andare e venire.


Il viaggio di ritorno fu quasi muto.

Marco guida­va, la mente piena di immagini che si sovrapponevano: Sara che rideva, Sara all’ospedale, Sara a Casa San Luca a leggere favole, Leo che dorme su quella tomba, la foto, i moduli firmati.

In casa, Leo entrò piano, rimanendo sul tappeto all’ingresso, come se avesse paura di sporcare i pavimenti di legno chiaro.

– È qui che vivi?

– Sì.

– Io… sono in punizione?

– No.

Marco si passò una mano tra i capelli.

– Starai nella stanza degli ospiti. Per stanotte. Per ora.

Il «per ora» fece abbassare un po’ lo sguardo al bambino, ma lui annuì.

– Sara diceva che questa casa era grande. Ma molto… molto vuota.

Marco sentì quelle parole come uno schiaffo.
Vuota.
Era vero.

– Vai a riposare.

Disse solo.

Appena fu solo, Marco andò dritto in cucina. Saltò il caffè. Aprì un mobiletto alto e tirò fuori una bottiglia di liquore. Si versò un bicchiere pieno, lo mise sulla scrivania nel suo studio insieme al fascicolo di Leo.

Rimase a lungo al buio, a fissare quelle carte. Alla fine aprì il dossier. Oltre ai moduli, trovò delle buste, con la sua grafia sul davanti.

Aperse la prima con le mani tremanti.

«Caro Marco,» iniziava. «So che questa sarà una sorpresa enorme. Ti prego, credimi: non ho mai voluto ferirti. Ma l’ho trovato, e lui aveva bisogno di me. Ho aspettato, aspettato un momento in cui il lavoro non ti portasse via, ma quel momento non arrivava mai… Avevo deciso: il giorno in cui l’adozione sarebbe stata definitiva, ti avrei fatto una sorpresa. A casa, con nostro figlio.»

«Nostro figlio.»

Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬

Scroll to Top