Mio padre, il vigile del fuoco che ho odiato più di chiunque altro, è morto da solo su una strada di provincia, quando il suo vecchio furgone dei volontari ha preso il guardrail alle due di notte.
Quando mi hanno chiamata per riconoscere il corpo, ho detto di no.
«Signora, abbiamo bisogno di un familiare», disse il carabiniere al telefono.
«Trovate qualcun altro.»
«Lei è l’unico contatto d’emergenza. È sua figlia…»
Riattaccai.
Tre giorni dopo, Bruno si presentò alla mia porta.
Centotrenta chili buoni, pancione, barba grigia fino al petto, con addosso la giacca ignifuga consumata che avevo visto su mio padre per tutta la mia infanzia.
«Elena, tuo padre se n’è andato», disse piano.
«Lo so.»
«Dobbiamo chiederti di…»
«Ho detto di trovare qualcun altro.» Iniziai a chiudere la porta.
La punta del suo scarpone la fermò. «Non c’è nessun altro, ragazza. Lo sai anche tu.»
Lo sapevo.
Mamma se n’era andata quando avevo tre anni. Niente fratelli, niente zii.
Solo io e l’uomo che aveva sempre scelto il turno in caserma, la sirena e i colleghi, prima di tutto il resto.
«Va bene», sospirai. Presi le chiavi. «Finamola in fretta.»
All’obitorio il medico legale sollevò il lenzuolo, e lui era lì.
Gianni “Capo” Rinaldi. Sessantacinque anni.
La cicatrice sul sopracciglio, presa in un incendio quando avevo otto anni.
Il naso storto, rotto cadendo da una scala in un altro intervento quando ne avevo dodici.
La barba grigia che gli avevo supplicato di tagliare prima della mia maturità.
«È suo padre?»
«Sì.»
Basta. Niente lacrime. Niente scena. Solo conferma e firme.
Bruno mi riportò a casa in silenzio. Davanti al portone, mi porse un mazzo di chiavi.
«Il suo appartamento. Qualcuno deve svuotarlo.»
«Bruciate tutto.»
«Elena…»
«Non voglio niente di suo.»
Gli occhi di Bruno, azzurri come quelli di mio padre, mi studiarono a lungo.
«Tuo padre ti voleva più bene di quanto…»
«Non cominciare.» Gli strappai le chiavi di mano. «Ti prego, Bruno.»
Passarono due settimane prima che mi decidessi ad andare da lui. Non perché ne avessi voglia.
Perché il proprietario mi chiamò tre volte minacciando di buttare tutto in un cassonetto.
L’appartamento sapeva di fumo stantio, caffè e gasolio.
Lattine di birra sul tavolino.
Pile di riviste sul volontariato e vecchi giornali ammassati ovunque.
Esattamente quello che mi aspettavo da Gianni Rinaldi.
Cominciai a riempire i sacchi della spazzatura. Vecchi vestiti. Bottiglie vuote. Stivali rotti.
Ventitré anni di rancore in ogni gesto. Ogni “non ci sono, sono di turno” tornava a galla ad ogni oggetto lanciato.
La camera da letto era peggio.
I muri tappezzati di foto di squadre in intervento, calendari dei vigili, camion rossi in fiamme di tramonti.
Il letto sfatto da chissà quanto.
Altre lattine. Altri giornali.
Altri promemoria di ciò che per lui era sempre venuto prima di me.
Poi lo vidi. Il suo vecchio casco da vigile del fuoco, in alto, sopra l’armadio.
Quello giallo con la visiera graffiata che aveva già prima che io nascessi.
Una volta, a cinque anni, mi aveva fatto sedere sul divano e me l’aveva messo in testa, ridendo.
Poi ho imparato a odiare tutto ciò che quel casco rappresentava.
Quando lo presi, qualcosa all’interno tintinnò.
Lo girai. Dal rivestimento interno spuntò una piccola scatola di legno, incastrata nel casco.
Le mani mi tremavano mentre la aprivo.
In cima c’era la mia pagella dell’asilo.
«Elena è una bambina dolce e generosa», aveva scritto la maestra. «Aiuta sempre gli altri.»
Sotto, la mia prima foto di scuola. Denti davanti mancanti, codini che mamma mi aveva fatto in uno degli ultimi giorni prima di sparire.
Poi seconda elementare. Terza. Quarta.
Ogni pagella. Ogni foto scolastica.
Ogni attestato.
Diploma di danza a dieci anni.
Certificato di partecipazione a un concorso di lettura alle medie.
L’invito al colloquio universitario.
Li aveva tenuti tutti.
Sotto ai ricordi di scuola c’erano delle ricevute. Decine, forse centinaia.
Presi la prima.
«Scuola di Danza Armonia – 1.200 euro – Corso triennale – Elena Rinaldi 7–10 anni»
Smisi di respirare.
Un’altra ricevuta. «Studio dentistico Dott. Ferri – Piano di pagamento apparecchio – Elena Rinaldi»
Un’altra. «Caparra alloggio studentesco – 2.500 euro – Università di Parma – Elena Rinaldi»
Altre ancora. Libri di testo. Vacanze studio. Summer camp in montagna. L’abito da sposa.
Ogni cosa che avevo sempre creduto pagata dai miei nonni.
Ogni opportunità che avevo avuto crescendo.
Ogni spesa che davo per scontato venisse «da loro, perché tuo padre non ha mai un euro».
Tutte, invece, tracciate a suo nome.
In fondo alla scatola c’era una busta. «Per Elena» scritto con la sua grafia storta.
Dentro, un solo foglio.
«Elena, so che mi odi. So perché. Non sono stato il padre che meritavi. Ho bevuto troppo. Ho urlato troppo. Ti ho messo in imbarazzo troppe volte.
Ma tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per te.
Ogni turno extra in caserma.
Ogni notte passata a fare il custode nel magazzino.
Ogni lavoretto di manutenzione nelle case degli altri. Tutto per te.
I nonni dicevano che saresti stata meglio a non sapere che i soldi venivano da me. Dicevano che li avresti rifiutati. Forse avevano ragione.
Sono rimasto lontano dal tuo matrimonio, come mi hai chiesto. Ma ero lì.
Davanti alla chiesa. Dall’altra parte della strada.
Ho visto la mia bambina sposare un brav’uomo. Eri uguale a tua madre.
Sono sempre stato orgoglioso di te, piccola mia. Sempre.
Tuo papà.»
La data in fondo alla lettera era di tre settimane prima.
Tre settimane prima dell’incidente lui sapeva.
In qualche modo aveva sentito che il tempo stava finendo, e aveva scritto quella lettera.
Chiamai Bruno, singhiozzando così forte che all’inizio non capì niente.
«Dove stava andando?» riuscii a dire, finalmente. «Quella notte. Dove stava andando alle due di notte?»
Silenzio. Poi: «Elena…»
«DOVE STAVA ANDANDO, BRUNO?»
«All’ospedale.»
«Cosa? Perché?»
«Eri in travaglio, ragazza. La tua vicina l’ha chiamato. Ha detto che eri sola perché Marco era all’estero per lavoro. Ha detto che avevi paura.»
Mio figlio era nato alle tre di notte. Mio padre era morto alle due.
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