Stava venendo da me.
Dopo che l’avevo bandito dalla mia vita.
Dopo che gli avevo detto che non volevo più vederlo.
Dopo avergli nascosto la gravidanza.
Stava comunque venendo da me.
«Ma come ha fatto la vicina ad avere il suo numero?»
«Tuo padre ti controllava ogni giorno, Elena. Passava con il furgone sotto casa tua tutte le mattine alle cinque, prima di andare al deposito.
Aveva chiesto ai vicini di buttare un occhio. La signora Lisi aveva il suo numero per le emergenze.»
Ogni giorno.
Quel furgone che a volte sentivo all’alba, il motore che svegliava il bambino, e che maledicevo in silenzio.
Era lui.
«C’è altro», disse Bruno. «Alla sede dell’associazione. Dovresti vederlo.»
La sede dell’Associazione Volontari Aurora era esattamente come l’avevo sempre immaginata.
Un vecchio capannone, odore di fumo, caffè e disinfettante.
Giubbotti appesi, caschi allineati, termos di plastica ovunque.
Ma fu la parete in fondo a fermarmi.
Era completamente coperta di fotografie. Di me.
La mia laurea, scattata di nascosto in fondo alla piazza.
Il mio matrimonio, ripreso dal marciapiede opposto.
Il mio primo giorno da maestra, davanti alla scuola.
Una foto di me incinta, presa da lontano, mentre portavo a casa le buste della spesa.
Centinaia di immagini che non sapevo nemmeno esistessero.
«Seguiva la mia vita?» sussurrai.
«Ogni volta che poteva», rispose Bruno.
«Quella parete era il suo altare. I ragazzi scherzavano dicendo che chiunque avesse parlato male di te avrebbe avuto bisogno del dentista.»
Si avvicinò un volontario che non avevo mai visto. Capelli bianchi corti, mani bruciate dal lavoro.
«Tu sei Elena?» chiese.
Annuii.
«Tuo padre mi ha tirato fuori da un capannone in fiamme, vent’anni fa. Mi ha preso sulle spalle e mi ha portato giù per tre rampe di scale. Io gli devo la vita.»
Tirò fuori il portafoglio. «Questo è per il tuo bambino. Per i suoi studi.»
Mi mise in mano una busta pesante.
Dentro, un assegno da diecimila euro.
Un altro volontario si avvicinò. Un’altra storia. Un’altra busta.
Per due ore si formò una fila. Ognuno con un aneddoto su mio padre.
Ognuno con soldi per il futuro di mio figlio.
Alla fine avevo più di cinquantamila euro.
«È stata un’idea sua», spiegò Bruno.
«Il Fondo Studio Gianni Rinaldi. Ogni volontario metteva da parte qualcosa ogni mese. Per suo nipote. Quello che non ha mai visto, ma che amava già.»
Crollai del tutto, allora.
Seduta sul pavimento freddo della sede, piangendo tra gli uomini che avevo passato una vita a evitare.
Vennero tutti al funerale.
Decine di volontari, vigili del fuoco, ambulanze in fila fuori dalla chiesa.
Quando il feretro uscì, le sirene suonarono tutte insieme. Il suono che da ragazzina mi faceva vergognare, ora mi sembrava un saluto d’onore.
Restai davanti alla tomba con mio figlio in braccio.
Lui non avrebbe mai conosciuto il nonno.
«Si chiama Giovanni Marco», sussurrai alla lapide. «Giovanni come te. Marco come suo padre.»
Bruno mi mise qualcosa tra le mani. Il vecchio giubbotto ignifugo di mio padre.
«Voleva che lo avessi tu», disse.
Lo portai al viso. Sapeva di fumo, caffè e sapone da bucato.
Sapeva di casa. Di sicurezza.
Di un amore che ero stata troppo cieca per vedere.
«Mi dispiace, papà», mormorai. «Mi dispiace così tanto.»
Il mio bambino allungò le mani verso il giubbotto, le dita minuscole che stringevano una toppa con il numero della squadra. Sorrise, e giuro che in quel sorriso ho rivisto mio padre.
«Tuo nonno era un uomo buono», gli dissi. «Complicato, pieno di difetti, ma buono. E ci ha amati più di quanto io abbia mai capito.»
Sei mesi dopo, presi il patentino di volontaria di protezione civile.
Niente di eroico. Solo corsi di primo soccorso, qualche turno nel weekend, un giubbotto giallo fluorescente con il mio nome.
Ma ogni volta che passo davanti al cimitero, la domenica, e vedo da lontano la fila dei cipressi, mi piace pensare che lui lo sappia.
Lo vedo ora in ogni sirena che sento in lontananza.
In ogni giubbotto arancione fermo accanto a un’auto in panne.
Negli uomini che sembrano duri, stanchi, arrabbiati, ma che passano le notti a correre verso le case degli altri.
Lo vedo in Bruno, che viene a trovarci ogni settimana.
Nei volontari che mi hanno sistemato il tetto senza chiedere niente.
Nell’associazione che si è assicurata che una giovane madre e un neonato non rimanessero mai soli.
Ho passato ventitré anni a odiare mio padre perché era sempre “di turno”.
Passerò il resto della vita a desiderare di averlo amato per lo stesso motivo.
Perché non era la divisa a renderlo assente alle recite e ai colloqui con i professori.
Erano i tre lavori che faceva per pagarmi la vita che desiderava per me, senza che io lo sapessi.
Non era la sirena a renderlo ruvido nei modi.
Era il suo tentativo disperato di proteggermi da verità che non ero pronta a sentire.
Non era un santo.
Beveva troppo. Perdeva la pazienza. Sbagliava spesso.
Ma mi amava con una forza che capisco solo ora che sono madre anch’io.
Un amore che stava nell’ombra perché io potessi stare alla luce.
Un amore che pagava i miei sogni mentre lui viveva contando gli spiccioli.
Un amore che passava sotto casa mia ogni mattina alle cinque, fino alla mattina in cui l’ha ucciso, cercando di raggiungermi un’ultima volta.
Mio padre è morto quando il suo vecchio furgone dei volontari ha preso un guardrail alle due del mattino.
È morto cercando di arrivare in tempo per tenere in braccio suo nipote.
È morto sapendo che io lo odiavo.
È morto amandomi lo stesso.
Ed è questo il tipo di amore che merita di essere ricordato.
Quello che merita di essere onorato.
Quello che merita una figlia che, finalmente, capisce che a volte le persone che ci spaventano di più sono quelle con il cuore più morbido.
A volte portano un casco rovinato e una giacca che sa di fumo.
A volte sono i nostri padri.
A volte ce ne accorgiamo solo quando è troppo tardi.
Ma non è mai troppo tardi per perdonare.
Non è mai troppo tardi per capire.
Non è mai troppo tardi per amarli indietro, anche se non ci sono più.
Riposa in pace, papà.
Tua figlia finalmente lo capisce.
Tua figlia, finalmente, è orgogliosa di te.






