Ho rapito mio nonno paralizzato dalla casa di riposo: quello che è successo sul ponte vi sconvolgerà

“Li abbiamo tenuti noi, Giovanni,” ha detto Franco, alzando la voce sopra i motori. “Il tuo posto al tavolo è ancora libero. E lo sarà sempre, finché ci saremo noi.”

Ho aiutato il nonno a infilare il casco. Gli stava un po’ largo – è dimagrito tanto – ma i suoi occhi brillavano così tanto che quasi facevano male a guardarli. Il gilet gli ha coperto le spalle magre come una corazza.

Poi è successa una cosa che mi ha fatto capire davvero perché il nonno li chiamava “fratelli”.

Franco ha spento la moto. Subito dopo, uno alla volta, tutte le altre si sono zittite. Il rumore è scivolato via, lasciando un silenzio pieno, vivo. Si sentiva solo il fiume sotto il ponte e qualche uccello.

“Fratello,” ha detto Franco inginocchiandosi accanto allo scooter. “Sappiamo che non puoi più guidare. Sappiamo che le parole non ti escono più come prima. Ma per noi sei sempre uno di noi. E lo sarai finché respirerai.”

La mano destra del nonno si è mossa. Lentamente, con fatica. Ha chiuso il pugno, poi ha tirato fuori solo il pollice e il mignolo. Il segno che mi ha insegnato da piccolo: ti voglio bene.

“Ti vogliamo bene anche noi,” ha risposto Franco, con la voce che gli tremava.

E proprio in quel momento abbiamo sentito le sirene.

Mamma aveva trovato il letto vuoto.

“Luca,” ha detto Franco piano, senza staccare gli occhi dal nonno. “Lo sai che verranno a riprenderselo.”

Ho annuito. “Lo so. Ma lui aveva bisogno di questo. Aveva bisogno di sentirsi di nuovo sulla strada, almeno una volta.”

“Sei un bravo ragazzo,” ha detto. “Hai più coraggio di tanti adulti.”

I primi ad arrivare sono stati i carabinieri. Hanno parcheggiato a qualche metro dal ponte, scesi calmi, senza mani sulle pistole o cose del genere. Guardavano la scena senza capire se dovevano arrabbiarsi o commuoversi.

Subito dopo è arrivata mamma, con la sua utilitaria. È scesa di corsa, la faccia bianca.

“Luca!” ha urlato. “Ma ti rendi conto di quello che hai fatto? Poteva succedergli qualcosa! Poteva… poteva…”

Si è bloccata quando ha visto il nonno con il casco e il gilet, circondato dai suoi amici. Per un attimo ho avuto paura che cominciasse a gridare contro tutti.

Ma il nonno ha fatto una cosa che ha fermato tutti, carabinieri, mamma e perfino me.

Con uno sforzo enorme, la mano destra gli tremava, ha tolto il casco. L’ha appoggiato sulle mie ginocchia. Poi ha indicato il gilet, i Lupi, il ponte. Infine si è portato la mano al petto, ha battuto piano e ha annuito.

Il messaggio era chiarissimo: Questo sono io. Qui è la mia vita. Queste persone fanno parte di me.

Mamma ha cominciato a piangere, ma non di rabbia. Di quelle lacrime che escono quando capisci di aver sbagliato per paura.

“Papà,” ha sussurrato avvicinandosi allo scooter. “Io volevo proteggerti…”

Il nonno ha allungato la mano verso di lei. Lei gliel’ha presa, si è inginocchiata accanto a lui come aveva fatto Franco. Lui l’ha tirata piano, avvicinandola fino quasi alla sua guancia. Poi ha indicato me, poi i motociclisti, poi sé stesso. Ha disegnato nell’aria un cerchio.

“Famiglia?” ha chiesto mamma, con la voce rotta.

Due strette. Fortissime.

Il ritorno non è stato un arresto. È stato un corteo.

Mamma guidava piano, davanti, con le quattro frecce. Io camminavo accanto allo scooter del nonno, una mano sulla sua spalla. Dietro di noi, in fila composta, tutti i Lupi della Strada, motori accesi ma tranquilli, come in una processione. I carabinieri chiudevano il corteo, senza sirene, solo le luci blu che si riflettevano sull’asfalto.

Davanti alla Residenza Colline Azzurre, il direttore è uscito tutto agitato, con la cartellina in mano e la faccia rossa.

“Qui ci sono regole!” ha iniziato a dire. “Responsabilità, firme, protocolli, sicurezza—”

Mamma gli ha tagliato la parola.

“Lo so bene,” ha detto, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. “E con tutto il rispetto, da oggi mio padre non è più un vostro ospite.”

“Ma signora, bisogna fare delle valutazioni, non può decidere così all’improv—”

“Mio padre viene a casa con me,” ha ripetuto. “Organizzeremo l’assistenza. E lui non passerà il resto dei suoi giorni a guardare un parcheggio dalla finestra. È deciso.”

Il direttore ha provato a protestare ancora, ma vedere tutti quei motociclisti fermi in silenzio dietro allo scooter del nonno non lo aiutava a sentirsi forte. I carabinieri non hanno detto nulla. Uno di loro, mentre passava vicino a me, ha solo sussurrato: “Tienilo d’occhio quando esci, campione. E vai piano.”

Sono passati tre mesi da quel giorno.

Il nonno vive con noi, adesso. Abbiamo svuotato il vecchio salotto e lo abbiamo trasformato nella sua stanza, con una porta-finestra che dà direttamente sul garage. I Lupi della Strada hanno costruito una rampa in legno per far passare facilmente la sedia a rotelle.

Ogni domenica pomeriggio arrivano in cinque, dieci, a volte venti. Entrano piano, senza fare casino. Qualcuno porta delle paste, qualcun altro giornali pieni di foto di moto, uno porta sempre dei mandarini perché “al comandante sono sempre piaciuti”.

Tiriamo fuori lo scooter dal garage, giusto qualche metro, e sistemiamo il nonno in mezzo alle moto. Non può guidarle, ma può sentirne l’odore, ascoltare il motore girare al minimo, guardare le mani esperte dei suoi amici che sistemano una catena o lucidano un fanale.

Non parla ancora. Non cammina. Ma gli occhi… quelli sono di nuovo vivi.

Settimana scorsa Franco è arrivato con un regalo speciale: una specie di sidecar modificato, con una piattaforma e un sistema di fissaggio per la sedia a rotelle.

“Per quando ti sentirai pronto, Giovanni,” ha detto, accarezzando il bracciolo. “Niente curve pazze, promesso. Solo un giro lento fino al lago.”

Il nonno ha pianto di nuovo. Ma erano lacrime buone.

Io, nel frattempo, sto imparando ad andare in moto su una piccola cilindrata che Franco ha rimesso a nuovo per me. Mamma all’inizio non voleva sentirne parlare, ma poi ha guardato il nonno, ha guardato me, e ha solo detto: “Casco sempre allacciato. E niente bravate.”

Credo di aver capito una cosa: certe cose ti entrano nel sangue, anche se provi a fermarle. La libertà. Il vento in faccia. La sensazione che la strada davanti non sia solo asfalto ma possibilità.

Il nonno mi sta insegnando anche un po’ di linguaggio dei segni, per quanto riesce. Ieri, con molta pazienza, mi ha fatto capire una frase nuova: “Grazie per avermi salvato.”

Io gli ho risposto con le mani: “Tu hai salvato me per primo.”

Ed è vero.

Mi ha salvato ogni volta che mi portava sulla moto quando ero piccolo, facendo il giro del paese con me che lo stringevo forte. Mi ha salvato quando mi spiegava che essere “duro” non significa non piangere mai, ma non girarsi dall’altra parte quando qualcuno ha bisogno. Mi ha salvato quando, anche dopo l’ictus, continuava a stringermi la mano due volte ogni volta che entravo in camera sua.

Quella mattina sul ponte, settantadue motociclisti hanno alzato il pugno per lui. Ma in realtà, forse, lo hanno alzato anche un po’ per tutti noi che abbiamo paura di invecchiare e di essere dimenticati.

Lo scooter elettrico adesso è parcheggiato nel nostro garage, vicino alla moto di Franco e alla piccola moto con cui sto imparando. A volte becco il nonno che lo guarda a lungo, e sono quasi sicuro che l’angolo della sua bocca buona si sollevi in un mezzo sorriso.

È il nostro segreto. La nostra fuga. La nostra piccola ribellione gentile.

Alla casa di riposo, ogni tanto, qualcuno racconta ancora del mattino in cui un ragazzino è uscito dal portone con suo nonno sullo scooter, seguito da una colonna di moto. Alcuni lo chiamano “il giorno del caos sul ponte”.

Io lo chiamo in un altro modo.

Lo chiamo amore.

E sono convinto che, se il nonno potesse parlare, direbbe che quella, con lo scooter a dodici chilometri all’ora e il cuore a mille, è stata la corsa più bella della sua vita. Dodici all’ora di libertà pura.

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