Ho riparato la sua auto gratis, e senza saperlo ho salvato la mia stessa vita

Pensavo che i conti fossero chiusi. Zero a zero, palla al centro. Io avevo perso qualche centinaio di euro, lei aveva guadagnato la possibilità di non affondare. Fine della storia.

O almeno, così credevo. Perché la vita, quella vera, ha un senso dell’umorismo contorto e non guarda in faccia nessuno, nemmeno a un vecchio meccanico scorbutico che crede di aver visto tutto.

Erano passati tre mesi da quella mattina di ottobre. L’autunno aveva lasciato il posto a un dicembre bastardo, di quelli che ti entrano nelle ossa e non escono più. L’officina era una ghiacciaia. Il riscaldamento del capannone si era rotto la prima settimana del mese e, ironia della sorte, non avevo i soldi per ripararlo subito.

Avevo detto la verità sul mangiare pasta in bianco. Quell’intervento sulla Punto non era stato l’unico “buco” nel bilancio. A novembre, un grosso cliente aziendale, una ditta di trasporti per cui gestivo l’intera flotta di furgoni, era fallito dalla sera alla mattina, lasciandomi con trentamila euro di fatture insolute.

Trentamila euro. Per un’officina di quartiere come la mia, è un colpo mortale.

Ero nervoso, stanco e dormivo sì e no quattro ore a notte. Marco, il mio capofficina, mi girava al largo. Sapeva che ero una polveriera pronta a esplodere. Ogni volta che squillava il telefono, temevo fosse la banca o un fornitore incazzato.

Il 23 dicembre, alle sette di sera, eravamo rimasti solo io e il silenzio. Avevo mandato i ragazzi a casa presto per la vigilia, un piccolo gesto di normalità in un periodo che di normale non aveva nulla. Ero rimasto sotto il ponte sollevatore numero due, a bestemmiare contro il cambio automatico di un SUV che non ne voleva sapere di scendere.

Fuori nevischiava. Dentro, l’unica luce era quella della mia lampada portatile.

Sentii una fitta al petto. Secca, improvvisa. Come se qualcuno mi avesse piantato un cacciavite tra le costole. «Maledetta gastrite», mormorai, pulendomi la fronte con il dorso della mano. Ero zuppo di sudore, nonostante ci fossero tre gradi.

Mi rialzai a fatica, appoggiandomi alla ruota del SUV. La fitta tornò, più forte. Questa volta non era un cacciavite. Era una morsa. Il braccio sinistro iniziò a formicolare, come quando ti addormenti sopra, ma faceva male. Un dolore sordo, profondo.

«No… ora no…» rantolai.

Cercai di raggiungere il banco da lavoro dove avevo lasciato il cellulare. Erano solo cinque metri. Mi sembrarono cinque chilometri. Le gambe diventarono di gelatina. Il mondo iniziò a inclinarsi verso sinistra.

Caddi.

L’impatto con il cemento freddo e unto d’olio non lo sentii nemmeno. Sentivo solo quel peso enorme sul petto, come se la Mercedes che avevo prestato a quella ragazza mi fosse parcheggiata sopra i polmoni.

Cercai di gridare, ma uscì solo un gorgoglio. La vista si appannò. Vedevo le luci al neon del soffitto allungarsi, diventare strisce bianche sfocate. Pensai a mia figlia. Pensai che non avevo aggiornato il testamento. Pensai che morire in tuta da lavoro, sporco di grasso, alla vigilia di Natale, era un finale del cazzo, ma forse era l’unico finale possibile per uno come me.

Poi, il buio iniziò a mangiare i bordi della mia visuale.

Ero pronto a spegnermi, quando sentii il rumore della saracinesca pedonale che si apriva. Il campanello d’ingresso trillò, allegro e fuori luogo.

«C’è nessuno? Scusi, ho visto la luce accesa…»

Quella voce. La riconobbi subito, anche attraverso il ronzio che avevo nelle orecchie. Era lei. La ragazza della Punto.

Cercai di muovermi, di fare rumore. Sbattei la chiave inglese che avevo ancora in mano contro il pavimento. Clang. Un suono debole, metallico.

Sentii dei passi veloci. Tacchi bassi che correvano sul cemento.

«Oddio! Signore!»

Il suo viso apparve sopra di me. Non era più la ragazzina spaventata di ottobre. Aveva ancora le occhiaie, ma i suoi occhi erano vigili, attenti. Indossava la sua divisa da OSS sotto un cappotto aperto.

In un secondo, la trasformazione fu totale. Non era più una cliente. Era una professionista.

«Mi sente? Mi stringa la mano se mi sente!» urlò, ma senza panico. Una voce ferma, da comando.

Strinsi debolmente le sue dita. Erano calde.

«Ok, resti con me. Non chiuda gli occhi. Ha un dolore al petto? Al braccio?»

Annuii impercettibilmente.

La vidi scattare. Non perse tempo a piangere o a chiedere aiuto invano. Tirò fuori il telefono, digitò il 112 e mise il vivavoce, mentre con l’altra mano mi slacciava la tuta da lavoro per farmi respirare.

«Codice rosso. Maschio, circa 55 anni. Sospetto infarto miocardico acuto. È cosciente ma tachicardico, sudorazione fredda. Sono un’operatrice sanitaria. Via dei Meccanici 12. Muovetevi».

Mentre parlava con l’operatore, non smise mai di toccarmi. Mi sentiva il polso, mi teneva la testa sollevata leggermente.

«Mi guardi», mi ordinò. «Mi guardi dritto negli occhi. Non se ne vada. Ha capito? Lei non se ne va stasera».

C’era una ferocia in lei che non avevo visto la prima volta. O forse c’era sempre stata, nascosta sotto la disperazione della povertà. Era la ferocia di chi combatte per la vita ogni giorno.

«La… macchina…» sussurrai, delirando. «Va… bene?»

Lei fece un sorriso tirato, mentre una lacrima le scendeva sulla guancia, tradendo la sua calma apparente. «Va benissimo. È un orologio. Stia zitto adesso. Risparmi fiato».

Sentii le sirene in lontananza. Poi il buio mi prese del tutto.

Mi sono svegliato due giorni dopo. Il bip ritmico di un monitor è il suono più fastidioso del mondo, ve lo garantisco.

Ero all’ospedale San Raffaele. Reparto cardiologia. Mi sentivo come se un camion mi avesse investito e poi avesse fatto retromarcia per controllare il danno. Avevo tubi ovunque.

La stanza era in penombra. Fuori dalla finestra, vedevo un cielo grigio. Natale era passato. Me l’ero perso.

«Benvenuto tra i vivi, Capo».

Girai la testa. Seduta su una sedia di plastica scomoda, nell’angolo, c’era lei. Aveva un libro in mano e l’aria di chi non dorme da un pezzo.

«Tu…» gracchiai. Avevo la gola secca come la sabbia.

Si alzò e mi versò un po’ d’acqua in un bicchiere di plastica, avvicinando la cannuccia alle mie labbra. Bevvi avidamente.

«I medici dicono che sei stato fortunato», disse lei, rimettendo a posto il bicchiere. «Ostruzione coronarica quasi totale. Ti hanno messo due stent. Se fossi rimasto su quel pavimento altri dieci minuti… beh, non staresti bevendo acqua».

La guardai. Indossava la divisa. Evidentemente aveva appena finito il turno o stava per iniziarlo.

«Che ci facevi?» chiesi. «In officina. Quella sera».

Lei abbassò lo sguardo, imbarazzata. Frugò nella sua borsa grande e sformata e tirò fuori una busta bianca e un piccolo pacchetto avvolto in carta rossa lucida.

«Ero venuta a portarti questi», disse piano. «È il mio primo stipendio intero. Post-prova. Mi hanno confermata, contratto a tempo indeterminato».

Mise la busta sul comodino. «Qui ci sono 200 euro. So che il lavoro valeva molto di più, e so che hai detto che pagava la Fiat… ma ho chiamato la concessionaria Fiat tre settimane fa per curiosità. Non esiste nessun “richiamo silenzioso” per la Punto seconda serie».

Mi fissò. Aveva capito tutto. Ovviamente. Non era stupida.

«Volevo iniziare a ripagarti. A rate. E questo…» indicò il pacchetto rosso, «…è un panettone artigianale. Di quelli buoni. Volevo solo augurarti Buon Natale».

Sentii un nodo alla gola che non c’entrava nulla con i tubi o la sete. Cercai di fare il duro, come sempre.

«Sei testarda, ragazzina. Quei soldi ti servono».

«Anche a te», ribatté lei, indicando la cartella clinica ai piedi del letto. «Ho parlato con Marco. È venuto ieri. Mi ha detto delle fatture non pagate. Mi ha detto che sei nei guai».

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