Ho riparato la sua auto gratis, e senza saperlo ho salvato la mia stessa vita

Sospirai, sconfitto. Non potevo mentire. Non in quel letto, non a lei.

«Me la caverò. Ho la pelle dura».

«Lo so», disse lei dolcemente. «Ma anche i carri armati hanno bisogno di manutenzione ogni tanto».

Si avvicinò al letto e mi prese la mano. La stessa mano che aveva stretto le chiavi della mia Mercedes, la stessa mano che aveva riparato la sua auto quando il mondo le era crollato addosso.

«Ascoltami bene», disse, e la sua voce tremò leggermente. «Quella mattina di ottobre, tu non hai solo riparato una macchina. Tu mi hai dato la possibilità di arrivare in orario. Di dimostrare che valgo qualcosa. Di dare da mangiare a mio figlio. Se non avessi avuto quell’auto, avrei perso il lavoro. Sarei finita per strada. Davvero».

Strinse la mia mano più forte.

«Quella sera, in officina… io ero lì solo perché tu sei stato gentile con me mesi fa. Se tu non mi avessi aiutato allora, io non sarei venuta a portarti il regalo. E nessuno ti avrebbe trovato in tempo».

Rimasi in silenzio a fissare il soffitto bianco. La matematica della vita. Un’equazione strana, impossibile da bilanciare con i numeri.

Avevo speso 800 euro virtuali e un po’ di sudore per lei. Lei aveva usato la sua competenza e il suo tempismo per salvarmi la vita. Chi era in debito con chi, adesso?

«Riprenditi i soldi», dissi rauco.

«No», rispose lei ferma.

«Riprenditeli, o giuro che appena esco da qui smonto di nuovo quel manicotto alla tua Punto».

Lei rise. Una risata vera, liberatoria. «Sei impossibile».

«Tienili per il bambino. Compragli… non so, qualcosa che non sia utile. Un giocattolo gigante. Qualcosa di bello».

Lei esitò, poi annuì lentamente. «Va bene. Ma il panettone te lo mangi. Appena i medici ti danno l’ok».

«Affare fatto».

Si alzò, guardando l’orologio. «Devo andare in reparto. Sono di turno al terzo piano. Passo a controllarti dopo».

Arrivata alla porta, si fermò e si voltò. «Ah, a proposito. La tua Mercedes? È parcheggiata fuori nel piazzale visitatori. Marco mi ha dato le chiavi per portarla qui, così quando ti dimettono non devi chiamare un taxi. L’ho lavata. E ho messo un alberello profumato alla vaniglia».

«Vaniglia?» borbottai fingendo disgusto. «Nella mia macchina tedesca virile?»

«Vaniglia», confermò lei sorridendo. «Così ti ricordi di essere dolce, ogni tanto».

Uscì dalla stanza, lasciandomi solo col bip del monitor.

Guardai fuori dalla finestra. Stava iniziando a nevicare di nuovo. I fiocchi cadevano lenti e silenziosi. Pensai ai miei guai finanziari. C’erano ancora. Trentamila euro non spariscono per magia. Avrei dovuto lottare, fare accordi, magari vendere qualcosa. Sarebbe stata dura.

Ma ero vivo. Ero vivo perché mesi prima, invece di fare l’imprenditore, avevo scelto di fare l’uomo.

Presi la busta con i soldi dal comodino. Dentro c’erano quattro banconote da cinquanta, piegate con cura. Sapevo quanto le erano costate. Sapevo quante rinunce c’erano dietro quei pezzi di carta.

Non li avrei usati. Li avrei messi in un libretto di risparmio per suo figlio. Un giorno, quando sarà grande, glielo darò. Gli dirò che è stato il primo acconto per la vita di un vecchio meccanico testardo.

Chiusi gli occhi, sentendo il battito del mio cuore. Un po’ acciaccato, un po’ rattoppato, ma ancora in marcia. Come un vecchio motore che si rifiuta di andare allo sfasciacarrozze.

La qualità si paga, dicevo sempre ai miei apprendisti. È vero. Ma a volte, il prezzo è solo un po’ di umanità. E il ritorno sull’investimento è qualcosa che nessuna banca al mondo ti può garantire: un domani.

Mi addormentai con il profumo immaginario di vaniglia nel naso e la certezza che, in qualche modo, tutto sarebbe andato a posto.

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