Restai in ginocchio accanto alla carrozzina con la fronte ancora appoggiata alle sue mani, come se quelle dita sottili potessero tenermi insieme meglio di qualsiasi parola. Sentivo il rumore del mio respiro spezzato e quello del suo, più leggero, quasi timido. Aveva l’aria di chi chiede permesso persino all’aria.
Lei mi accarezzò i capelli con un gesto lento, incerto, ma ostinato. Poi disse una frase che mi inchiodò al pavimento, perché non era una domanda da madre confusa. Era una frase da madre presente.
«Hai… trovato la scatola?»
Alzai la testa di scatto. I suoi occhi erano velati, sì, ma dentro c’era un lampo di qualcosa di vivo. Un riflesso antico, come quando una finestra si apre e per un secondo ti entra in casa l’odore dell’estate.
«Quale scatola, mamma?» chiesi, con la voce che mi uscì piccola.
Lei batté le palpebre due volte, e quel lampo si richiuse. La bocca le tremò appena, come se avesse provato a dire altro e la parola le fosse caduta a metà strada. Poi tornò a essere lei, quella che non sapevo leggere.
«Non importa… Hai mangiato?»
Un’infermiera passò nel corridoio spingendo un carrello che odorava di disinfettante e tè caldo. Mi guardò con quella pietà educata che si riserva a chi arriva tardi a capire. Io abbassai gli occhi come un ragazzo colto con le mani nel barattolo.
«Se vuole, le porto un bicchiere d’acqua,» disse.
«Grazie,» risposi. «E… scusi. È che… non venivo così spesso.»
Lei non fece una morale. Mi regalò solo una frase semplice, che mi fece più male di qualsiasi rimprovero. «Le persone qui si ricordano più delle mani che delle parole.»
Quando rimasi di nuovo solo con lei, presi una sedia e mi sedetti accanto alla finestra. Fuori, il parcheggio era grigio come una fotografia vecchia e il cielo basso sembrava schiacciarti le spalle. Per la prima volta mi accorsi di quanto quel mondo fosse piccolo per lei.
«Mamma,» dissi piano. «Ho letto i quaderni.»
Lei si girò appena, come se il suono della parola “quaderni” fosse una campanella lontana. Le sue dita cercarono il bracciolo della carrozzina, e io le presi la mano prima che si perdesse nel vuoto. Sentii quanto fosse leggera, e mi vergognai di tutte le volte in cui l’avevo chiamata “pesante”.
«Io… non sapevo,» continuai. «Non sapevo della fede. Non sapevo dei termosifoni spenti. Non sapevo che ti eri fatta a pezzi in silenzio, solo per non farmi sentire la fame e la paura.»
Le sue labbra si mossero senza voce, poi uscì un sussurro. «Le scarpe… da calcio?» disse. Non era un ricordo intero, era una scheggia, ma era la scheggia giusta.
Mi morsi la guancia per non crollare. Vidi me stesso ragazzino con le scarpe nuove ai piedi, che correvo senza capire. Qualcuno stava pagando quel campo con la propria dignità, con la propria fame, con la propria notte.
«Sì,» dissi, e la parola mi si ruppe. «Erano bellissime. E io non ti ho mai detto grazie come si deve.»
Lei mi guardò come guardano i bambini quando non capiscono il discorso ma sentono il dolore. Poi fece la cosa che aveva sempre fatto: cercò di aggiustarmi, di aggiustare il mondo, di rimettere a posto quello che si era rotto. Anche adesso, anche con la mente che si sfilacciava.
«Non piangere, Valerio. Ti fa male la testa, poi.»
Mi venne da ridere e piangere insieme, perché era crudele e dolcissimo nello stesso istante. Lei non sapeva più tenere insieme le date, i nomi, i giorni. Eppure sapeva ancora dove colpisce il pianto: in quel punto tra gli occhi dove ti pulsa la colpa.
Quella sera tornai a casa con la scatola in macchina, come se stessi portando un organo vivo. Mia moglie era in cucina, la stessa cucina dove martedì avevo lanciato le chiavi e la rabbia. Per un attimo rividi quel me stesso: duro, affamato di controllo, convinto che “risolvere” fosse l’unica forma di amore.
«Sei stato da tua madre?» chiese lei, con cautela.
«Sì,» risposi. «E ho scoperto che la sto perdendo due volte. Una volta perché la mente se ne va. E un’altra perché io… non c’ero.»
Mia moglie non disse “te l’avevo detto”. Non disse “era ora”. Si avvicinò e posò una mano sulla scatola, come se volesse calmarla.
«Allora adesso ci sei,» disse soltanto. «Dimmi cosa facciamo.»
Quella domanda mi fece paura, perché “cosa facciamo” era esattamente ciò che avevo sempre evitato: il presente, senza scorciatoie. Io volevo vendere, chiudere, archiviare, trasformare una madre in una pratica da completare. E invece mi si chiedeva di restare.
Il giorno dopo tornai in soffitta e non presi più sacchi neri. Presi scatole pulite, di cartone spesso, e cominciai a separare con lentezza. Ogni oggetto che avevo buttato via il sabato prima aveva dentro una storia che io non avevo mai avuto la pazienza di ascoltare.
Una tazza scheggiata era una colazione di Natale. Una sciarpa era un inverno senza riscaldamento. Una rivista di cucina era la fantasia di un pranzo che non poteva permettersi ma che voleva comunque immaginare per me.
In fondo a un cassetto trovai un sacchetto di stoffa che profumava ancora, incredibilmente, di lavanda. Dentro c’era un sapone consumato e un fazzoletto ricamato con le iniziali. Non valeva niente, eppure mi sembrò una reliquia.
Presi quel sacchetto e lo portai con me alla Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA). Quando entrai nella sua stanza, lei era nella stessa posizione, con lo stesso parcheggio davanti e lo stesso cielo. Ma io non ero più lo stesso.
«Ciao mamma,» dissi, con una voce che provai a rendere normale, non drammatica, non “finale”. Lei mi guardò e sorrise, e quel sorriso mi trafisse perché era insieme vero e sbagliato.
«Ah… sei venuto. Bravo. Ti sei ricordato.»
Non corsi a correggerla. Non dissi “sono tuo figlio”. Mi sedetti e tirai fuori il sacchetto, come si tira fuori un pezzo di casa.
«Ho trovato questo,» dissi. «Profuma come casa tua.»
Lo avvicinai al suo viso. Lei inspirò piano, e per un secondo vidi le sue spalle scendere, come se qualcosa dentro di lei avesse finalmente smesso di trattenere il respiro. Fu un gesto minuscolo, eppure enorme.
«Lavanda,» mormorò. «La mettevo nei cassetti… così non entravano le tarme.»
«E così entrava la pace,» dissi senza pensarci.
Lei rise piano, una risata piccola che sembrò riempire tutta la stanza. Poi, come succede con chi sta scivolando via, il momento si spezzò all’improvviso. La sua faccia cambiò come cambia il cielo quando passa una nuvola.
«Dov’è papà?» chiese, guardando oltre la mia spalla.
La domanda mi colpì come uno schiaffo gentile. Mio padre: la parola che nella nostra casa era stata un buco nel muro, un’assenza diventata abitudine. Aprii la bocca, pronto a rispondere con una frase standard, ma mi fermai.
Perché nei quaderni avevo letto quanto lei avesse protetto la mia infanzia anche da quel vuoto. Non era il momento di farle pagare la verità, se la sua mente non aveva più gli strumenti per reggerla. Le strinsi la mano come si stringe un’ancora.
«Non lo so, mamma,» dissi onestamente. «Ma io sono qui.»
Lei mi fissò come se quella risposta avesse senso in un modo che io non capivo. Annuì, lentamente, e tornò a guardare la finestra. Io rimasi lì a imparare l’arte più difficile: restare senza aggiustare.
Cominciai ad andare da lei ogni giorno, anche solo per venti minuti. Non con grandi dichiarazioni, ma con piccoli rituali che fanno una vita. Le portavo un mandarino, le mettevo un po’ di crema sulle mani ruvide, le pettinavo quei capelli sottili con delicatezza.
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