Ho urlato così forte che il silenzio, dopo, mi ha fatto male alle orecchie. In quel momento, accecato dalla rabbia, non ho visto mia madre. Ho visto solo una macchia scura sulla mia vita perfetta.
Vivo a Verona, a due passi da Piazza delle Erbe. Il mio appartamento si trova in un palazzo storico ristrutturato: travi a vista, pavimento in cotto antico e un arredamento minimalista che ho curato maniacalmente. Per me, Dario, 42 anni, architetto, la casa non è solo un tetto. È il mio biglietto da visita, il mio rifugio dall’ordine e dal caos del mondo esterno.
Tutto era perfetto, fino all’arrivo di mia madre, Renata.
Dopo la morte di papà, la grande casa in campagna vicino al Lago di Garda era diventata troppo solitaria per lei. L’ho portata qui. Pensavo fosse la cosa giusta. Ma la convivenza si è rivelata una prova durissima. Mamma era come un elemento estraneo nel mio ecosistema. Spostava i cuscini del divano, accumulava barattoli di vetro vuoti “perché non si sa mai”, e camminava per casa con le sue pantofole di lana. Quel sciabattare leggero sul pavimento… Dio, quanto mi innervosiva quando lavoravo fino a tardi.
Quel martedì, Verona era avvolta nella nebbia, quella tipica nebbia fitta e umida della Pianura Padana che ti entra nelle ossa. Ero sotto pressione. Un progetto importante per una cantina vinicola in Valpolicella era in ritardo, e il mio cliente era furioso. Ero chiuso nel mio studio da ore, alimentato solo da caffè espresso e ansia.
Verso le tre del pomeriggio sono uscito dalla mia “tana”, con gli occhi stanchi e i nervi a fior di pelle, solo per prendere un bicchiere d’acqua.
È successo tutto in un attimo.
Mamma era in salotto, impietrita, proprio al centro del mio prezioso tappeto persiano – un pezzo antico che mi era costato una fortuna. Nelle sue mani tremanti stringeva una vecchia tazza di ceramica sbeccata.
Vedendomi arrivare con quella faccia scura, ha sussultato. Le sue mani, rese deboli dall’età, hanno ceduto.
Clack.
La tazza è caduta. Un liquido scuro, denso, è esploso sul tappeto, schizzando sui miei pantaloni di sartoria e sul divano bianco. L’odore era forte, penetrante.
In quel momento, ho perso la testa. Lo stress, la stanchezza, la frustrazione… tutto è uscito fuori come un fiume in piena.
«Ma insomma, Mamma!» ho urlato. La mia voce è rimbombata tra le pareti antiche. «Possibile che tu non riesca a stare attenta? Guarda cosa hai fatto! Quel tappeto è rovinato! Perché non te ne stai in camera tua se non riesci a tenere in mano una tazza?»
Le parole uscivano dalla mia bocca taglienti come lame. Sapevo di essere crudele, ma non riuscivo a fermarmi. È il brutto di noi figli: ci sentiamo autorizzati a ferire chi ci ama di più.
Mamma non ha risposto. Non si è giustificata. Ha solo abbassato lo sguardo, mortificata, come una bambina sgridata dalla maestra. Le sue spalle si sono incurvate e, improvvisamente, mi è sembrata piccolissima. Fragile.
«Scusa, Dario… scusa tanto», ha mormorato con un filo di voce.
Si è girata lentamente, evitando i cocci, ed è tornata verso la sua stanza. Sciabattando. Poi, il rumore discreto della porta che si chiudeva.
Sono rimasto lì, col cuore che batteva all’impazzata, a fissare il disastro. La rabbia stava scemando, lasciando posto a un senso di colpa pesante come un macigno. Sono corso a prendere smacchiatore e stracci. Bisognava salvare il tappeto.
Mi sono messo in ginocchio e ho iniziato a strofinare con foga.
Ma mentre strofinavo, l’odore del liquido mi ha colpito. Non era caffè. Non era vino. Odorava di erbe, di dolce e di aspro. Timo. Miele. E limone.
Mi sono bloccato, con lo straccio sospeso a mezz’aria.
Un ricordo mi ha travolto, nitido. Avevo dieci anni, ero a letto con la febbre alta e la tosse. Fuori c’era il temporale. Mamma era seduta accanto a me e mi faceva bere quel suo decotto speciale. «Bevi, tesoro, questo ti pulisce la gola», diceva nel suo dialetto dolce. Era il suo rimedio, la sua “medicina” d’amore.
Istintivamente, mi sono toccato la gola. Era ruvida. Stamattina, durante una videochiamata, avevo tossito un paio di volte. Una tosse secca, fastidiosa. Non ci avevo fatto caso, troppo preso dal lavoro.
Ma lei sì. Lei lo aveva sentito.
Attraverso la porta chiusa, lei aveva sentito che il suo bambino di 42 anni tossiva.
Mentre io mi preoccupavo della mia carriera e del mio stupido arredamento, lei era andata in cucina. Aveva messo a bollire l’acqua, aveva cercato il timo, aveva sciolto il miele. Non voleva disturbarmi. Voleva solo prendersi cura di me, in silenzio. E io? Io le avevo urlato contro per un pezzo di stoffa.
Ho lasciato cadere lo straccio. La macchia era ancora lì, ma non me ne importava più nulla. Mi sentivo un verme.
Noi italiani siamo passionali, ci arrabbiamo in fretta, ma sappiamo anche che la mamma è sacra. E io avevo appena commesso un sacrilegio.
Mi sono alzato. Sono andato in cucina. Ho rifatto tutto da capo. Ho trovato il timo, il barattolo del miele. Le mie mani tremavano un po’.
Con due tazze fumanti, sono andato davanti alla sua porta. Ho bussato piano. Nessuna risposta.
Ho aperto. Lei era seduta sulla poltrona, guardando fuori dalla finestra la nebbia che avvolgeva i tetti di Verona. Non piangeva, ma la sua solitudine riempiva la stanza.
Sono entrato, ho posato la tazza sul comodino e mi sono inginocchiato accanto a lei. Ho appoggiato la testa sulle sue ginocchia, come facevo da piccolo quando ne combinavo una grossa.
«Quel tappeto era vecchio comunque», ho detto piano, mentendo spudoratamente.
Ho sentito la sua mano esitare, poi posarsi sui miei capelli. Una carezza leggera, familiare.
«Era persiano, Dario. E costava tanto», ha risposto lei, con quel tono pratico delle donne venete.
«Sì. Ma non quanto questo», ho risposto, prendendole la mano. «Ho ancora mal di gola, Mamma. Hai messo abbastanza miele?»
Lei ha fatto un piccolo sospiro, che sapeva di perdono. «Due cucchiai colmi. Sei sempre il solito esagerato.»
Quella sera abbiamo cenato insieme in cucina, con pane, formaggio e quel decotto caldo. La macchia è rimasta sul tappeto. Non la farò togliere. Ogni volta che la guardo, mi ricordo una lezione fondamentale: le cose si possono ricomprare o pulire. Le persone, no. E non bisogna mai alzare la voce con chi sta solo cercando di curarti.
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